Carlo Nordio
Carlo Nordio

I nodi della giustizia/ Il passo avanti sui tabulati e ciò che serve per l'arresto

di Carlo Nordio
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Venerdì 1 Ottobre 2021, 00:13

Alcuni giorni fa – parafrasando Neil Armstrong – scrivemmo su queste pagine che la riforma Cartabia era un piccolo passo verso un sistema garantista, ma un enorme balzo nella giusta direzione, perché per la prima volta manifestava un cambiamento di approccio verso i diritti individuali. Ora il decreto legge sui tabulati telefonici costituisce una gradita sorpresa in questo percorso virtuoso. In questi anni abbiamo assistito a una progressiva devastazione dei diritti della difesa nel processo penale. Questo forse non sarà l’inizio della fine, ma almeno è la fine dell’inizio. 

Per chi non è esperto di pandette, la questione è la seguente. Mentre per intercettare le conversazioni di una persona occorre, come per la sua carcerazione, la cosiddetta doppia chiave, cioè la richiesta del Pm e l’ordinanza del Gip, per ottenerne i tabulati, cioè per sapere chi hai chiamato, e quando e dove, era sufficiente il decreto della Procura. La Corte di Giustizia Ue aveva già detto che non andava bene, la Cassazione aveva esitato, auspicando una riforma. Che ora è arrivata: anche per i tabulati occorre, salvo un’urgenza evidente, il provvedimento del Giudice. 

Perché il passo è piccolo? Perché, come stiamo ripetendo da anni, queste intercettazioni si sono trasformate da mezzi di ricerca della prova in prova autonoma, e quindi vengono utilizzate, anche da sole, per ottenere provvedimenti cautelari e persino condanne. Poi alla fine salta tutto, perché durante i vari dibattimenti queste captazioni si rivelano alterate da una trascrizione imperfetta o travisate nel contenuto per la negligenza di chi le ha ascoltate. Basti pensare che in esse, riportate nei cosiddetti brogliacci, manca il tono, elemento fondamentale nel comprendere l’intenzione e il “mood” degli interlocutori. La stessa imprecazione, e persino la bestemmia, possono infatti, a seconda del tono, assumere un significato affermativo, interlocutorio o negativo; di consenso, di dissenso o di sorpresa. Non solo. Queste intercettazioni, fatte spesso a strascico, oltre ad essere costosissime finiscono quasi sempre sui giornali e in televisione, senza magari aver rilevanza alcuna nelle indagini, ma con l’effetto di “sputtanare”, come disse una volta efficacemente l’on. D’Alema, le persone. Se poi queste rivestono cariche politiche, il loro destino è segnato. Il caso della ministra Guidi insegna. 

Questa vergogna intollerabile, indegna di un Paese civile, è mantenuta perché una parte della magistratura, cui la politica ha aderito con sospetta cortigianeria, è convinta che sia indispensabile per la lotta al crimine in genere e alla mafia in specie.

E’ la consueta mitologia grezza che crea suggestioni enfatiche. Perché è vero che servono. Ma servono come gli altri mezzi ambigui di indagine che tuttavia non entrano nel processo, come le confidenze e le spiate. Dovrebbero costituire lo spunto per la ricerca di prove da esibire in giudizio, non esser di per se stesse elemento su cui fondare una sentenza. 

D’altro canto qualcosa del genere esiste già: sono le cosiddette preventive, autorizzabili dal solo Pm ma rigorosamente segrete, e destinate a restare nella sua cassaforte. Come le lettere anonime sono letame, ma possono darti degli spunti per iniziare indagini nel pieno rispetto dei diritti individuali, e produrre frutti. Superfluo infine ricordare che queste intrusioni non hanno risparmiato parlamentari, ministri e persino capi di Stato, da Scalfaro a Napolitano, con la pretestuosa giustificazione che se questi soggetti non sono intercettabili, lo è chi parla con loro. Il che, se non è zuppa, è pan bagnato. 

Su questa sgradevole anomalia del nostro sistema la riforma della ministra non è intervenuta. Né poteva intervenire, perché questo parlamento semigiacobino non glielo avrebbe consentito. Tuttavia essa costituisce – come dicevamo – un balzo nella giusta direzione, perché è un primo esempio di riduzione degli enormi poteri che il Pm attualmente detiene, e di cui spesso fa un uso disinvolto ed esagerato. E quindi un auspicabile prodromo a quella separazione delle carriere che esiste in tutti i codici cosiddetti alla Perry Mason, come quello che abbiamo introdotto, sia pure imbastardito, più di trent’anni fa. 

Cartabia ha detto a suo tempo che queste riforme continueranno. Se potessimo, con tutta umiltà, darle un consiglio, gliene proporremmo una che non riguarda più i poteri del Pm ma quelli, altrettanto esorbitanti del Gip. Il quale, con la sua sola firma, può mandare in galera una persona e tenercela a lungo, o almeno finché il tribunale del riesame, come spesso avviene, ne ordini la liberazione. Ebbene, la decisione di questa misura cruenta e spesso ingiustificata, che lascia sull’imputato un’impronta indelebile di vergogna e di dolore, sia affidata a un organo collegiale, lontano anche topograficamente dal Pm che la richiede. Sia essa una sezione presso la Corte d’ Appello, sia una “chambre d’accusation “ sul modello francese, sia lo stesso tribunale del riesame con competenza distrettuale; ma siano comunque tre teste di magistrati, e non una, a decidere sulla vita di una persona. Stavolta sarebbe davvero un passo gigantesco sulla via del diritto e dell’equità. 

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