Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Mercati chiusi/ La lezione tedesca per il resto dell’Europa

di Vittorio Emanuele Parsi
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Giovedì 31 Marzo 2022, 00:00

Qual era il Paese più forte d’Europa prima dello scoppio della guerra in Ucraina, quello che tutti gli Stati membri dell’Unione venivano spinti ad emulare, con la sua economia basata su un surplus strutturale di esportazioni?
La Germania. Qual è oggi il Paese più vulnerabile dell’Unione, che ha una dipendenza strutturale abnorme dall’importazione di energia dalla Russia? La Germania. In poco più di un mese, ciò che sembrava solido è diventato fragile. Semplicemente perché alla rilevanza della dimensione economica si è aggiunta quella politica. Fino a ieri la preoccupazione tedesca era soprattutto quella di mantenere e ampliare i mercati per il proprio export ad alto valore aggiunto. Da oggi il tema cruciale è trovare fonti di approvvigionamento energetiche sostitutive. Il problema non è più il saldo positivo tra export e import, ma diventa quello della sostenibilità dei flussi dell’uno e dell’altro: con una priorità rispetto alla dimensione delle importazioni. Infatti sostituire parte della domanda estera con quella interna è possibile e probabilmente anche conveniente in termini sia economici che politici e sociali (più equità, più salari, più ricchezza consumata internamente): su questo la Cina ha iniziato a muoversi già da qualche anno. Mentre è molto più complicato e lento farlo con le materie prime (energetiche innanzitutto) che servono ad alimentare un’economia di trasformazione ad alto contenuto tecnologico.


L’energia è il settore che è immediatamente in primo piano in molti dei discorsi di queste settimane, considerando che Mosca la sta usando come arma fondamentale per esercitare pressione sull’Europa. Ma ci sono altri settori altrettanto rilevanti, dai cerali (quindi pane e pasta, ma anche mangimi, per cui polli e bestiame), sementi varie (quindi olii e industria dolciaria e di trasformazione) e fertilizzanti (quindi tutto il comparto agro-alimentare). Ancora una volta la Cina si è mossa con largo anticipo su tutti, facendo land-grabbing un po’ ovunque nel mondo: dall’Asia al Sudamerica, dall’Australia all’Africa.

Potremmo dire soprattutto all’Africa, che è stata per troppo tempo un oggetto di una politica europea ondivaga e schizofrenica, volta da un lato a cercare di tutelare l’agricoltura europea e dall’altro a consolidare buone partnership con quel continente che dall’ultimo ventennio dell’Ottocento fino al terzo ventennio del Novecento proprio gli europei avevano spietatamente sfruttato se non saccheggiato.


Se torniamo all’importante eurosummit di Versailles di qualche settimana fa, cogliamo meglio le implicazioni strategiche, la necessità di un vero e proprio cambio di rotta, che derivano dalla giusta consapevolezza di come una maggiore autonomia politica, militare ed energetica siano necessarie per proteggere le nostre società aperte, i nostri valori e le nostre istituzioni. In termini molto semplici, significa considerare che il rischio politico gioca un ruolo tanto decisivo del rischio economico. Per alcuni aspetti direi oggi persino superiore, perché lo abbiamo troppo a lungo sottovalutato (si pensi al Nordstream 2).
Credo che l’incubo peggiore per la Germania (e anche per noi tutti) sia la possibilità che all’allineamento politico tra Cina e Russia possa corrispondere una manovra a tenaglia della chiusura dei suoi mercati di approvvigionamento delle materie prime (import) con quelli di sbocco dei suoi prodotti ad alto valore aggiunto (export). Questo dovrebbe spingere tutti i governi d’Europa, compresi quelli “frugali”, a riconsiderare come sia decisiva e impellente la conversione verso un modello economico non più trainato, direi “drogato”, dalle esportazioni ma invece maggiormente “assicurato” allo sviluppo della domanda interna e – in termini energetici – sempre più indipendente dalle fonti fossili (e per la parte residua più attento non a un generico “rischio Paese” ma alla “minaccia Paese”, per cui meglio il gas qatarino che russo) ma invece fondato su rinnovabili ed, eventualmente, più o meno futuribili modalità di produzione d’energia.

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