Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Oltre la scuola / Il futuro dei giovani che sta per iniziare

di Paolo Balduzzi
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Venerdì 6 Gennaio 2023, 00:07

Si aprono in questi giorni le iscrizioni al prossimo anno scolastico. Per i genitori degli alunni che si trovano a fine ciclo si tratta sicuramente di un momento molto importante, a volte cruciale. La scelta diventa sempre più difficile e ponderata man mano che l’età dei ragazzi cresce. In particolare, per chi si appresta a entrare nel percorso di scuola secondaria di secondo grado (le “superiori”, in un linguaggio più chiaro e meno burocratico), il momento è delicato. Per diversi motivi. 
Innanzitutto, perché le scuole superiori sono un percorso piuttosto lungo (cinque anni, nella maggior parte dei casi): accorgersi di aver sbagliato scuola, magari dopo un paio di anni di frequenza, rischia addirittura di portare uno studente a valutare l’abbandono. I dati più recenti comunicati dal Ministero descrivono infatti un fenomeno in diminuzione ma dalla dimensione ancora preoccupante: il tasso di abbandono della scuola superiore era del 4,4% nell’anno scolastico 2013/2014 e ancora del 3,3% nell’anno scolastico 2018/2019, con una distribuzione piuttosto uniforme sul territorio ma che colpisce particolarmente i percorsi professionali rispetto ai licei e agli istituti tecnici. 
Il secondo motivo è che è difficile immaginarsi il mondo del lavoro di qui a cinque o a dieci anni. È una questione importante, certo, ma forse non fondamentale. Il mondo del lavoro è infatti in continua evoluzione, un’evoluzione che peraltro aumenta di velocità con il passare degli anni. Essere focalizzati semplicemente su una professione o su una metodologia può portare al risultato paradossale, poco probabile ma non certo impossibile, di cominciare un percorso attualmente all’avanguardia ma che diventa obsoleto nel giro di un lustro.
È un’illusione quella di pensare che si possa smettere di studiare alla fine delle superiori. Era forse vero nel secolo scorso ma non lo è già più da un paio di decenni. Fortunatamente, le nuove generazioni ne sono spesso più consapevoli rispetto a quelle passate. Il dramma è che, a volte, non se ne rendono conto nemmeno docenti, dirigenti e anche qualche ministro. L’ultimo motivo, ma non certo in ordine di importanza, è dato dal rapporto con i figli: è giusto che siano i genitori, o solo i genitori, a scegliere? La risposta è scontata per la scuola primaria e per la secondaria di primo grado, ma non lo è certo quando si parla di scuola superiore. 
Da un lato, è giusto che un genitore metta al servizio dei figli la propria esperienza e la propria opinione. D’altro canto, è anche corretto assecondare le tendenze, le inclinazioni, gli interessi dei ragazzi. I giovani non sono tutti uguali, e nemmeno i nostri figli sono tutti uguali: qualcuno matura prima e ha già le idee chiarissime, qualcun altro ha bisogno di una guida, di un aiuto o anche solo di un po’ di sostegno e fiducia. Lo sforzo di essere un buon genitore, professione in cui tutti ci sforziamo giornalmente di non fare eccessivi danni, passa anche attraverso la capacità di riconoscere il punto di sviluppo dei propri figli.
In un’età, peraltro, dove provare a parlare e ragionare con loro assume caratteri di puro eroismo relazionale. Ma se questi anni sono un incubo per i genitori, sono forse una delle età più belle proprio per i ragazzi. Che, nei prossimi cinque anni, impareranno in profondità il significato di diverse parole. Amicizia, per esempio, perché alcuni dei nuovi compagni di classe rimarranno amici per tutta la vita (se non addirittura, nei casi più fortunati, coniugi); oppure passione, perché grazie a quella professoressa, a quella frase scovata in un libro iniziato di malavoglia, a quella poesia da studiare a memoria, al mistero di un’equazione di secondo grado che finalmente svela le sue radici, i ragazzi possono accendere quell’interruttore che li farà innamorare di una o più materie. 
Oggi, ma anche domani, il Paese ha maggiormente bisogno di persone appassionate alla conoscenza che di meri contenitori di nozioni (“imbuti”, per citare una delle più inopportune definizioni utilizzate da un ministro della Repubblica), perché solo le prime sono disposte a imparare (e sanno come farlo criticamente) qualunque nuova informazione. 
Cosa può fare lo Stato per aiutare le famiglie in questi momenti? Tantissimo, al di là degli interventi ovvi e basilari, ma che vale comunque la pena di ricordare: strutture adeguate, a partire dagli edifici, e utilizzo e accesso alla tecnologia in tutte le scuole. Ma questo non basta. Servono anche capacità di autovalutazione dei risultati ottenuti, di valorizzazione dei docenti migliori e delle scuole più innovative e coraggiose, di sviluppo di curricula scolastici anche assecondando le esigenze dei territori. 
Ancora: lo Stato non deve avere paura di sviluppare piani formativi di eccellenza o sperimentali, come i percorsi di quattro anni, oggi ancora poco diffusi, che permettano ai giovani italiani di competere da subito con i coscritti europei.
Soprattutto, lo Stato non deve cadere nella tentazione di dividere le scuole tra quelle di serie A, che preparano all’università, e quelle di serie B, più professionalizzanti. Perché l’università è una perdita di tempo se non si ha idea di come funziona il mondo del lavoro; e, come già ribadito, iniziare a lavorare sperando di non dover più imparare è un grave errore. Le famiglie hanno anche bisogno di certezze, se non addirittura di un po’ di stabilità: a settembre ogni istituto deve avere un preside, tutti i docenti, e personale amministrativo e sanitario completi. 
Tutti gli alunni hanno il diritto di cominciare le lezioni sin dal primo giorno e non, come troppo spesso accade, ad autunno inoltrato. Cari genitori e cari ragazzi, preparatevi dunque a una delle scelte più importanti della vostra vita: fatelo con attenzione e con lungimiranza ma anche con piena fiducia nelle vostre capacità di superare i momenti difficili. E, perché no, anche con un minimo di leggerezza.
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