Paolo Pombeni
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Flussi e migranti / Un’emergenza che deve risolvere anche l’Europa

di Paolo Pombeni
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Venerdì 10 Marzo 2023, 00:46 - Ultimo aggiornamento: 00:47
Sembra si stia giungendo alla consapevolezza che il problema delle migrazioni di massa verso l’Europa sarà per un bel po’ di tempo una componente strutturale: lo attestano le dinamiche demografiche (il vecchio continente è in crisi di natalità, Africa e parte dell’Asia sono in espansione), nonché i flussi determinati dalle instabilità generate sia dalle guerre che dalle difficoltà economiche (due fattori che si intrecciano). Dunque non c’è spazio per illudersi che il fenomeno possa essere affrontato a livello delle antiche “nazioni sovrane”.
La critica al trattato di Dublino sta allargandosi, almeno a parole, ma come rispondere all’emergenza rimane ancora senza progetti precisi. Affrontare il tema semplicemente sul piano degli aiuti finanziari, come propone da ultimo anche Von der Leyen nella sua lettera a Giorgia Meloni, non tocca il cuore del problema. Certamente è un passo da non disprezzare, perché è già una ammissione che chi si fa carico dei flussi migratori assolve un compito europeo, ma occorre qualcosa di più.
L’argomento per cui chi sbarca in Italia, ma se per questo anche in Spagna, a Malta, in Grecia, mette piede in Europa è stato spesso speso per chiedere la redistribuzione dei migranti oltre i paesi di prima accoglienza. Il successo di questa impostazione è stato più che modesto e tale resterà se non si riesce a fare il salto “giuridico” necessario.
Cosa intendiamo dire? In un contesto come quello UE che è tutto norme e regolamenti solo l’inquadramento dell’accoglienza in un quadro di legislazione europea può segnare una nuova fase. Si potrebbe iniziare quanto meno dall’istituire un diritto di asilo comunitario (non basta quello delle norme internazionali). Come la UE partecipa in quanto tale per esempio al sostegno all’Ucraina invasa dalla Russia, così chi cerca rifugio fuggendo da una situazione di guerra e persecuzione deve vedersi da subito accolto in Europa, con un atto giuridico comunitario valido per tutti i paesi e non in uno dei 27 stati dell’Unione e poi si vedrà se si può andare oltre.
Siamo ben consapevoli delle difficoltà che ci sono per procedere su questa strada. Quella che si coglie immediatamente è che sarebbe necessario convenire a livello comunitario nel riconoscere quali sono i paesi in cui si riscontrano situazioni di guerra o di violazione dei diritti civili inderogabili, per cui chi li lascia ha subito diritto allo status di rifugiato. Si può ben immaginare cosa scatenerebbe nelle relazioni fra stati un simile catalogo: persino il riconoscimento di uno simile status per l’Afghanistan, cosa su cui sarebbe relativamente facile trovare un accordo largo, provocherebbe reazioni da parte di quel governo, ma pensiamo a cosa avverrebbe per paesi come l’Iran. Tuttavia è una strada che si deve tentare, sia pure con tutte le cautele del caso. Servirebbe fra l’altro a confermare a livello internazionale che l’Europa esiste, è un soggetto dotato di una sua forma di “sovranità” che la pone sullo stesso piano dei principali protagonisti della nuova geografia delle zone di influenza. Si è consapevoli che passi in questa direzione scatenerebbero reazioni da parte delle obsolete manie sovraniste presenti tanto a destra quanto a sinistra dell’arco politico nei diversi paesi dell’Unione. Con le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo nella tarda primavera del 2024 la voglia di imbarcarsi su questo terreno non è certo grande nei gruppi dirigenti sia a Bruxelles sia nelle diverse capitali.
Iniziare almeno da regole comuni nel gestire i flussi migratori sia per quanto riguarda i richiedenti asilo, sia per quanto riguarda i migranti economici sarebbe di grande giovamento. Per esempio riguarda il tema dei ricongiungimenti familiari. Come si è visto nella tragedia di Cutro, alcuni di quei migranti non avevano l’obiettivo di rimanere in Italia, ma di usare il nostro paese come transito per raggiungere familiari già presenti in altri stati europei. Casi diversi che vanno da donne che vogliono riunirsi al loro compagno a parenti che pensano di ripetere la via europea che ha dato qualche chance ad un loro congiunto.
Poter affrontare il problema complessivo dei flussi migratori con una gestione affidata, almeno come inquadramento e coordinamento, ad una struttura comunitaria aiuterebbe se non a mettere fine almeno a ridurre una giungla di aspettative, di diversità di approcci, di scaricabarile reciproci: tutto un contesto che moltiplica i contenuti destabilizzanti che sono presenti in fenomeni come le migrazioni di massa (che non sono una novità assoluta nella storia).
L’Italia potrà guadagnare peso e prestigio se saprà porsi come il laboratorio che progetta un nuovo approccio al problema strutturale dei flussi migratori, lasciandosi alle spalle sia l’illusione che si tratti di un evento transitorio governabile con un po’ di ricorso alla solidarietà emergenziale per lasciarlo poi al suo destino, sia quella che pensa di risolverla con l’invenzione di qualche genere di barriere che la dirottino altrove. Lavorare con l’Europa non è facile e lo sappiamo bene, ma è una strada obbligata se si vuole mettere sotto controllo un fenomeno che non si può lasciar sviluppare fidando su una sua stabilizzazione spontanea. Noi abbiamo bisogno di manodopera immigrata, ne hanno bisogno anche altri stati europei, e si pongono problemi di integrazione a cui è legato il mantenimento di un equilibrio sociale che favorisca lo sviluppo. Le risorse necessarie non sono solo quelle finanziarie, ma anche quelle giuridiche e culturali, che sono maggiormente disponibili e più efficaci se l’Europa ritroverà la sua solidarietà e la sua solidità come soggetto inter-nazionale superando la fase “condominiale” che tuttora ne limita le capacità di azione e di presenza a livello internazionale.
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