Ruben Razzante
​Ruben Razzante

Censura Meta / Se le big tech escludono l’informazione di qualità

di ​Ruben Razzante
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Martedì 19 Marzo 2024, 00:34

Quando i media raccontano le vicende relative ai colossi della Rete, uno dei rischi più ricorrenti nell’immaginario collettivo è di confinare quelle notizie nel recinto delle informazioni per addetti ai lavori, quasi che non possano esercitare alcuna influenza sulla vita concreta di persone, imprese, istituzioni. Un approccio interpretativo del genere sottovaluta pericolosamente l’impatto che le condotte delle big tech possono avere sulla vita degli Stati e sulla declinazione e la fruizione dei diritti fondamentali, dalla libertà d’espressione alla libertà d’iniziativa economica, incidendo sui percorsi di realizzazione individuale e sulla tenuta degli equilibri sociali e politici.
La decisione di Meta di eliminare negli Stati Uniti e in Australia Facebook News, sezione dedicata alle notizie, segue l’annuncio di alcuni mesi fa sulla rimozione di Facebook News dal Regno Unito, dalla Francia e dalla Germania e risponde a precise strategie aziendali di indirizzamento degli investimenti verso prodotti e servizi più remunerativi. Sul piano strettamente formale nulla di illecito e tutto pienamente riconducibile alla sacrosanta libertà d’impresa.
Ad uno sguardo più attento, però, tale determinazione assunta dal gigante guidato da Mark Zuckerberg evidenzia una contraddizione stridente tra lo spirito “interventista” che le piattaforme web e social hanno progressivamente assunto sul terreno dell’esercizio della libertà d’espressione, arrogandosi in molti casi funzioni di monitoraggio, controllo e selezione di contenuti pubblicati dagli utenti, e un loro atteggiamento “rinunciatario”, che di fatto provoca una marginalizzazione nello spazio virtuale di informazioni giornalistiche professionalmente confezionate e verificate.
In situazioni d’emergenza come la pandemia o i conflitti in corso sul fronte russo-ucraino e su quello israelo-palestinese i colossi della Rete hanno collaborato con gli Stati e con i produttori di resoconti giornalistici contribuendo in maniera preziosa a rendere più facilmente riconoscibili da parte degli utenti digitali i contenuti di qualità, vagliati e riconducibili a fonti istituzionali, ammettendo implicitamente che l’informazione di qualità fosse identificabile con quella prodotta da professionisti scrupolosamente attenti al controllo dell’affidabilità delle fonti e della veridicità delle informazioni.
Negli ultimi mesi, però, questo slancio verso la valorizzazione in Rete dei prodotti editoriali professionali sembra essersi a dir poco affievolito, con la conseguenza che nella gigantesca mole di dati che affollano il web e i social i contenuti affidabili si diluiscono e sono più difficilmente rintracciabili da parte degli utenti.
Potrà sembrare un accostamento ardito, ma un disimpegno così marcato da parte delle piattaforme nei confronti dei canali giornalistici si configura per certi aspetti come una vera e propria censura, e non è fuori luogo evocare questa chiave di lettura nei giorni in cui si celebra la Giornata mondiale dedicata alla lotta contro la cyber censura e alla promozione della libera espressione sul web e di un eguale accesso alle informazioni.
Per secoli uno dei parametri per misurare il tasso di democraticità dei governi era il contenuto più o meno restrittivo delle normative in materia di stampa. Ciclicamente sono divampate polemiche su presunte censure sui media tradizionali. Ancora oggi numerosi governi applicano politiche draconiane di censura online, riducendo drasticamente l’accesso dei cittadini ai contenuti digitali e limitando di fatto la libertà d’espressione. Mentre prima dell’avvento della Rete il tema della censura risultava riconducibile in via esclusiva alle possibili pressioni manipolatorie da parte dei governi in carica e dei decisori istituzionali, oggi nel web e sui social per analizzare il fenomeno nella sua interezza e complessità non si può non fare riferimento alle politiche intraprese dalle big tech. Il grande equivoco è che piattaforme private gestite da multinazionali con sedi in tutto il mondo maneggiano il bene pubblico dell’informazione, vigilano in maniera subdola sui flussi di notizie, censurano profili, silenziano opinioni. La privatizzazione del bene pubblico dell’informazione e l’opacità degli algoritmi integrano gli estremi di nuove e più pericolose forme di censura che richiedono un “Nuovo Statuto della Rete” in grado di mettere al centro i diritti fondamentali degli individui, delle imprese e delle istituzioni, per realizzare un paesaggio digitale democratico e inclusivo.
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