Alessandro Campi
​Alessandro Campi

Sondaggi fallaci/ Il ritorno alla normalità dopo il voto in Abruzzo

di ​Alessandro Campi
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Martedì 12 Marzo 2024, 00:14

La politica italiana vive dei miti, delle illusioni, dei giochi di parole e della propaganda a buon mercato che essa stessa colpevolmente alimenta e diffonde.

Da parte di esponenti di partito e commentatori dall’animo talvolta sin troppo militante, è ormai un continuo annunciare e smentire, spesso nello spazio di poche settimane o giorni. Detta una cosa oggi, domani si afferma allegramente il contrario, sperando nella scarsa memoria dell’interlocutore. Mai qualcuno che si scusi o che dica: ho (abbiamo) sbagliato.

Il voto in Abruzzo doveva dunque avere una valenza nazionale, a maggior ragione dopo l’esito della consultazione sarda favorevole al centrosinistra. Doveva essere, se quest’ultimo avesse vinto di nuovo come dicevano sondaggi che in realtà nessuno ha visto e che parlavano di un appassionante testa a testa, anzi di un prodigioso sorpasso del Fronte del Bene sul Fronte del Male, l’inizio di una fase politica completamente nuova.
Fase segnata dalla consacrazione del “campo largo” come alleanza non più occasionale, ma strategica tra Pd e M5S, senza considerare gli altri compagni di strada. Dal conseguente logorarsi dell’immagine di Giorgia Meloni e dall’acuirsi delle divisioni interne al centrodestra, che certo non avrebbe retto l’urto di una seconda e devastante sconfitta. Dal diffondersi di un clima sociale e culturale nuovo, segnato dalla “forza della speranza progressista” contro una destra che vive  solo di paura e intolleranza, come sostenuto con slancio lirico dal Grande Scrittore Impegnato prestato per un giorno alla politica.

Ma in Abruzzo, come si è visto, il centrodestra ha (ri)vinto, anche con largo margine. Politici appartenenti al campo sconfitto e fior di opinionisti loro fiancheggiatori si sono quindi affrettati a spiegare, smentendo il se stessi del giorno prima, che in fondo si è trattato di una consultazione a valenza localistica, dalla quale sarebbe sbagliato ricavare indicazioni generali. L’Ohio, quale Ohio? Insomma, avevamo capito male anche stavolta.
Detto questo, cosa si ricava da questo appuntamento? Se trattasi di voto locale, come ora si dice, l’uscente governatore Marco Marsilio per la maggioranza degli abruzzesi votanti ha evidentemente governato bene. L’elezione per un secondo mandato, con i cattivi umori che circolano tra i cittadini, non è una cosa scontata di questi tempi. Per la cronaca, Marsilio ha ottenuto più consensi stavolta che quella precedente.
E a chi obietta, maligno, che in fondo Marsilio è stato votato da un cittadino abruzzese su quattro, si può solo rispondere che l’analoga osservazione non si è sentita dopo l’elezione in Sardegna della grillina Alessandra Todde. Anche lei in fondo è stata eletta da un sardo su quattro. Ma questo non la delegittima come non delegittima Marsilio. Anzi, abituiamoci al fatto che nelle democrazie contemporanee le maggioranze sono sempre più larghe minoranze.

Dal punto di vista dei partiti, nel centrodestra si è confermata l’egemonia sul resto della coalizione di Fratelli d’Italia, la cui forza, come il caso abruzzese sembra aver confermato, deriva da tre fattori convergenti: una leadership volitiva che sa muoversi tra le cancellerie estere, i palchi dei comizi e gli stadi di rugby, un gruppo dirigente coeso perché temprato da lotte comuni e una struttura organizzativa da vecchio partito novecentesco gerarchico e radicato sul territorio.

Nell’Abruzzo già democristian-remogaspariano, poi largamente berlusconiano, non dovrebbe sorprendere il buon risultato di Forza Italia. In realtà, la sua tenuta elettorale, scomparso il leader-fondatore, non era un fatto scontato, qui come altrove. Il dato abruzzese, ottimo viatico per le prossime europee, conferma che sta evidentemente funzionando la virata pragmatico-moderata impressa al partito (a partire dalla politica estera) da Antonio Tajani.

Matteo Renzi – frustato nel suo desiderio di prendersi l’eredità del Cavaliere – l’altro giorno ha attaccato Tajani come un grigio burocrate, non capendo che proprio questa è in realtà la sua forza. Quella di guidare senza eccessi verbali o pose muscolari o troppo chiacchiere a vuoto una forza centrista tranquilla che proprio perché tale piace agli elettori, oltre a funzionare come stabilizzante del centrodestra.
Quanto al risultato della Lega, è la conferma che sotto il Po questo partito non è riuscito a darsi una base elettorale stabile e significativa. La Lega nazional-sovranista tentata da Salvini, più che un progetto ideologico, è stata un fortunata, e per un breve periodo vincente, formula propagandistica, non accompagnata però dalla costruzione di una classe politica locale seria e preparata come quella che essa ha nei suoi storici territori d’insediamento. Il Carroccio sta sempre più tornando entro i suoi fisiologici confini padani.
Nell’altro campo colpisce il crollo del M5S, frutto di una mentalità opportunistica che è il contrario di qualunque spirito di coalizione.

I grillini vanno a votare con convinzione solo i propri candidati, come in Sardegna. Ancora non conoscono reciprocità e lealtà verso gli alleati. Per il Pd, che invece cresce in modo significativo sino a raggiungere il 20%, è un bel problema: concede senza ottenere, ma non si può essere troppo generosi all’infinito.

Ciò non toglie che a sinistra l’alleanza giallo-rossa non ha alternative. Finora non ha quasi mai funzionato, ma forse perchè è stata perseguita senza convinzione e con troppi retropensieri. Dopo le europee, quando ognuno avrà contato le proprie forze, bisognerà provare a darle corpo e sostanza, sapendo che ci sono questioni delicate da risolvere, a partire dal posizionamento internazionale dei due partiti.
Meloni atlantista sembra aver convinto il Salvini nostalgico del putinismo. A Elly Schlein la stessa operazione nei confronti di Giuseppe Conte potrebbe richiedere più fatica, anche perché lei stessa è tentata da suggestioni neutral-pacifiste che di questi tempi, per definizione, risultano pericolosamente ambigue.
A proposito, mancano all’appello Renzi e Calenda. Il loro riformismo, che già funziona poco come terzo polo autonomo e alternativo, sparisce del tutto dentro una coalizione-calderone come quella tentata in Abruzzo: troppo larga e variegata per risultare anche credibile. I partiti possono mettere la sordina alle loro differenze per convenienza tattica, ma gli elettori le percepiscono lo stesso e le sanzionano.

Resta da dire dell’astensionismo, anche stavolta molto alto (quasi il cinquanta per cento degli abruzzesi non ha votato). Perché un simile dato? La domanda (gli elettori) evidentemente non riesce a incontrare l’offerta (i partiti). E’ un fatto di programmi poco realistici o convincenti, dipende dagli eccessi di propaganda, dalle troppe promesse non mantenute in passato, da una radicata disillusione, ma da quel che si è visto in Abruzzo dipende anche da un crollo di autorevolezza dei politici di professione che non si riesce proprio ad arrestare.
Basterebbe averne seguito, anche stavolta, le performance durante la campagna elettorale, specie sui social: le spiritosaggini dette, le pose ammiccanti da adolescenti che hanno tenuto, le frequenti cadute di stile anche nel linguaggio, il loro voler essere a tutti i costi simpatici, alla mano, popolari, glamour, spiritosi, mediaticamente sempre sul pezzo. Si debbono essere chiesti molti cittadini: se la politica è questa – uno spettacolo con attori di basso livello che recitano a braccio e fanno battute mediocri – non è forse meglio starsene a casa? Detto, fatto, anche stavolta.

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