Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Orgoglio italiano/ Il percorso per ridurre lo spread “politico”

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 21 Marzo 2024, 00:20

Sono pochi i termini economici che sono entrati nel dibattito collettivo come la parola “spread”. Forse non tutti sanno esattamente cosa significa: e, per loro, è utile ricordare che si tratta della differenza tra il rendimento dei titoli di stato di un paese e quello del paese considerato meno rischioso di tutti (la Germania). Ma tantissimi hanno capito che il suo aumento non è mai una buona notizia. 
Una semplice regola di finanza prevede che un maggiore rendimento è giustificato sulla base di una maggiore rischiosità dell’investimento: più nello specifico, i cittadini presteranno soldi ai governi solo in cambio di remunerazioni molto elevate. E quando si chiedono remunerazioni elevate su un prestito? Quando non ci si fida abbastanza di chi sta chiedendo il denaro. Per questo motivo lo spread è quindi considerato un ottimo indicatore della reputazione (fiscale) di un paese. Nel 2011, in particolare, il vocabolo era sulla bocca di tutti. E, per chi allora c’era, oggi basta leggere o sentire il termine per evocare ricordi poco piacevoli: manovre correttive, riforme previdenziali, aumento della pressione fiscale, tagli drammatici e generalizzati alla spesa pubblica. 

Nell’immutabile tradizione politica nazionale di farsi del male da soli, dove in Italia siamo imbattibili, l’argomento dello spread è utilizzato dai partiti politici all’opposizione per screditare il lavoro della maggioranza di turno: quando lo spread sale, è tutta colpa del governo in carica. E sia pure: del resto, chi vuole condurre un paese dovrà pure avere delle spalle sufficientemente larghe per essere considerato responsabile di ogni male. D’altro canto, quando si osserva che lo spread si riduce, come sta avvenendo ormai da tempo, allora bisognerebbe riconoscere i meriti dell’esecutivo. È così: lo spread è a quota 120 circa e si avvicina ai valori più bassi degli ultimi dieci anni (sotto quota 90 con il governo Draghi). Il paese ha migliorato la sua reputazione e il governo italiano, almeno in questo periodo, è ben visto dai partner politici internazionali e dagli investitori, italiani e stranieri.

Su questo quadro positivo pesa però un grande pericolo: quello di accontentarsi del risultato e di godersi il momento. O, per essere più precisi, di confondere il mezzo con il fine. E tale fine non è certo quello di annullare lo spread, bensì quello di diminuire deficit e debito pubblico. Il calo dello spread è una buona notizia non perché porterà alla diminuzione della spesa per interessi ma “solo” perché la farà crescere meno del previsto. I deficit degli ultimi anni, sia quelli giustificati dall’emergenza covid sia quelli ingiustificati dovuti al superbonus, devono essere ripagati. E la spesa per interessi, dopo anni di lieve ma costante diminuzione, tornerà a crescere: di circa dieci miliardi nel 2024 e nel 2025 e di altri dieci nel 2026, avvicinandosi pericolosamente a quota 100 miliardi, una cifra che equivale al 5% del prodotto interno lordo e al 10% del totale della spesa pubblica. 

Considerando poi che le coperture per gli sgravi contributivi, nonché quelle per la riforma fiscale, sono assicurate solo per l’anno corrente, è chiaro che la caccia alle risorse per le prossime leggi di bilancio è ancora tutta in salita. Al di là quindi della reputazione del paese nei confronti degli investitori, ora maggiormente adeguata al merito della nostra nazione, è lo spread politico quello su cui il governo dovrà lavorare nel resto della legislatura. In altri termini, bisognerà ridurre la distanza che esiste tra il considerarsi semplicemente parte di una società e il sentirsi protagonisti delle sorti di un paese. E come potrà avvenire tutto ciò? Innanzitutto, provando a riappassionare alla politica il 50% degli elettori che non votano più; e poi, sempre più ambiziosamente, stimolando un ottimismo spesso diffuso ma anche latente nella nazione; rinvigorendo l’imprenditorialità nazionale, oppressa da fisco e burocrazia; e sviluppando, infine, la speranza nel futuro che manca ai più giovani, a volte impauriti e disorientati di fronte alla difficoltà di crescere in un paese dal futuro economico e demografico ancora incerto.

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