Carlo Nordio
Carlo Nordio

Schemi da rivedere / Se il sistema elettorale produce instabilità

di Carlo Nordio
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Mercoledì 10 Agosto 2022, 00:48

La storia, e la politica, sono ricche di accordi non onorati, talvolta per un equivoco nella stipulazione, talaltra per malafede nell’esecuzione. Quello tra Letta e Calenda si è esaurito in feroci contumelie, con reciproche accuse di tradimento, di disonore, e anche di peggio. 
Dice il primo: Calenda aveva accettato un’alleanza con l’estrema sinistra. Risponde il secondo: io avevo avvertito Letta che alcuni punti non erano negoziabili, a cominciare dall’energia e dalle alleanze internazionali. Non essendo stati presenti alla contrattazione, non sappiamo chi dica la verità, ma temiamo che le parti si siano lasciate con una riserva mentale: Calenda fiducioso che Letta avrebbe convinto Fratoianni a evitare argomenti così divisivi, e Letta confidente che Calenda, sazio dei collegi ottenuti, avrebbe tollerato eventuali dissonanze dei “comunisti”. 
Ma Fratoianni ha votato contro l’entrata nella Nato di Svezia e Finlandia, e sull’ambiente ha sposato l’agenda Greta. Calenda non aveva altra scelta, pena la definitiva perdita di credibilità, peraltro già vulnerata dall’accordo con il Pd. Era possibile evitare questo gioco di ruolo? Certo che lo era. Bastava che le due parti chiarissero subito il punto cruciale: se Fratoianni persevera nella sua inossidabile e coerente fede marxiana, c’è posto per lui nella coalizione?
Invece, probabilmente, i due leader si sono congedati con il wishing thinking di aver ottenuto più di quello che la controparte era disposta a concedere.
Il segretario del Pd ha sostenuto che l’accordo con l’estrema sinistra era necessario a causa del rigore della legge elettorale e della necessità di sconfiggere le destre. Quest’ultimo è un sussulto emotivo e ideologico, ma non è un argomento razionale, per tre motivi. In primo luogo perché un partito, o una coalizione, deve presentarsi con un programma costruttivo, e non con la sola velleità di sconfiggere un nemico, evocando i fantasmi di un passato svanito. 
Poi perché questo programma deve essere condiviso dagli alleati, e se questi dissentono sulle questioni fondamentali, l’assembramento si squaglia. E, infine, perché queste due osservazioni sono state ripetutamente confermate dall’esperienza: quando il centrosinistra si è unito con il solo fine di evitare “la minaccia fascista” ha sempre trovato un Bertinotti che, coerentemente con le sue premesse, ha successivamente fatto saltare il banco. Che questa lezione di elementare grammatica politica non sia ancora stata appresa da un partito di antica e solida storia come il Pd, è un mistero eleusino.
Quanto al primo motivo, la legge elettorale, sarebbe finalmente tempo che tutti i partiti facessero, se non un mea culpa, almeno una riflessione. Perché il “rosatellum” non è stato calato dal cielo, ma è l’epilogo di una perniciosa tradizione: quella di cambiar le norme a seconda dei presumibili vantaggi contingenti. Ma non solo. Questa storia dura da quasi trent’anni: da quando cioè, nel 1993, fu introdotto il sistema uninominale, più o meno corretto e imbastardito. 
Il collegio uninominale, dove chi prende un voto più degli altri piglia tutto, è stato a suo tempo descritto come un correttivo al sistema proporzionale con le liste dei candidati, fonte, si disse, dello strapotere dei partiti, di mercimoni sottobanco e di illeciti finanziamenti. Mentre nel piccolo circondario - si aggiunse - l’elettore conosce personalmente i candidati, e quindi è in grado di controllarne la coerenza e la capacità. E, tanto per recitare la consueta litania esterofila, si concluse che quello era il sistema della Gran Bretagna e, per certi aspetti, degli Stati Uniti, modelli entrambi di efficienti democrazie liberali. Era un abbaglio colossale, e per due ragioni. 
La prima, che nella peggiore tradizione del nostro casuismo gesuitico nessuno disse che i partiti si sarebbero divisi le circoscrizioni prima del voto, piazzando nei collegi cosiddetti sicuri i beniamini propri, o quelli imposti dalla baratteria delle alleanze. Così il cittadino contava anche meno di prima. Per fare un esempio, al Mugello, terra notoriamente rossa, furono candidati Antonio Di Pietro per la sinistra e Giuliano Ferrara per la destra.
Il devoto e disciplinato comunista dovette quindi scegliere tra un raffinato e colto neo berlusconiano e un roccioso ex Pm di sospette simpatie destrorse, perché così avevano voluto le segreterie. Si trattò insomma di un sistema proporzionale occulto e surrettizio, dove all’elettore era imposto un “prendre ou laisser” senza possibilità di interloquire. Esattamente quanto sta accadendo ora, nelle affannose predisposizioni delle candidature. 
La seconda ragione è che questo sistema uninominale è incompatibile con la nostra Costituzione, sia formale che materiale. Esso infatti funziona dove esiste un sostanziale bipartitismo, con una serie di regole assai diverse dalle nostre. A parte che la Gran Bretagna non possiede nemmeno una costituzione codificata, e gli Usa hanno un sistema presidenziale, i nostri padri del 1948 edificarono l’assetto dello Stato sulla base di una ridotta presenza di partiti - sette o otto – solidi e ben costrutti. Oggi, a parte uno o due, sono quantomeno instabili, e del loro numero si è persino perso il conto. 
Concludo. La querelle Letta-Calenda solleva questioni più importanti della sorte delle coalizioni che si confronteranno il 25 settembre. Solleva, in definitiva, il problema se questo sistema costituzionale sia idoneo all’attuale volatilità della politica, e alla formazione di maggioranze di governo coerenti e durature. Letta teme che una vittoria schiacciante del centrodestra porterebbe a una revisione costituzionale unilaterale.
Non crediamo che Giorgia Meloni e gli alleati siano così inavveduti da intervenire, anche in caso di un trionfo, da soli.

Anche perché la nostra Costituzione è stata ormai modificata così tante volte da essere un enigma dentro un indovinello avvolto in un mistero, e un’altra pezza la ridurrebbe a un’arlecchinata. Forse, e senza forse, è invece il momento di pensare a una nuova assemblea costituente.

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