Francesco Grillo
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Politica e interessi/ Il voto Usa, sempre più una partita tra dinastie

di Francesco Grillo
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Lunedì 2 Novembre 2020, 00:10

“Noi riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti e tra di essi c’è quello di perseguire la felicità”. Il sogno americano che ha popolato l’immaginario collettivo con grandi film, è nel preambolo della Costituzione degli Stati Uniti. La contraddizione che le elezioni di domani non può sciogliere è che quel sogno si è, da tempo, fermato. Il male oscuro della democrazia americana precede Donald Trump e difficilmente sarà curato da Joe Biden. Sono, anzi, proprio le elezioni presidenziali ad essere diventate, da tempo, l’esempio più netto – Barack Obama ne fu un’eccezione troppo clamorosa per determinarne un cambiamento – di un sistema nel quale il privilegio sta diventando ereditario. In queste circostanze, avvertiva Thomas Jefferson, il popolo ha il diritto di “abolire quella forma di Governo che non garantisce più quei diritti e di istituirne un’altra” ed è questo, probabilmente, il senso della vicenda che stiamo vivendo e che potrebbe segnare la fine definitiva del secolo americano cominciato nel 1918.

L’età, la concentrazione del potere di controllo dell’informazione (che è, paradossalmente, cresciuta grazie alla tecnologia che ha reso tutti capaci di pubblicare quello che gli passa per la mente) e gli stessi meccanismi elettorali: sono questi i sintomi e le cause di un processo che sta trasformando quella che era un’aristocrazia repubblicana basata sul merito, in una plutocrazia che si sta inaridendo.

Fu Donald Trump a diventare – a 70 anni – il più anziano Presidente eletto nella storia degli Stati Uniti nel 2016. Il record sarà, ovviamente, stracciato perché il suo contendente – Biden – ne avrà 83 se vincesse domani. Ancora più impressionante è, però, il dato sulle campagne per nominare i candidati nei due Partiti: sei dei dieci più anziani politici che hanno partecipato alle primarie in 224 anni di storia, hanno corso in quelle del 2020 (il più anziano, in assoluto, è stato Bernie Sanders, ma nella classifica c’è anche Michael Bloomberg ed Elizabeth Warren). Gli sconfitti delle ultime quattro elezioni (nel 2004, 2008, 2012 e 2016) - John Kerry, John McCain, Mitt Romney e Hillary Clinton – sarebbero stati tutti – in caso di vittoria – Presidente oltre l’età massima (67) oltre la quale, in un qualsiasi Paese del mondo, sei in pensione. Certo non necessariamente l’età avanzata è un indicatore di conservatorismo (Sanders è il politico che ha avuto più consenso tra i giovani americani) e, tuttavia, una politica che – al suo più alto livello – è fatta solo di “vecchi”, perde parte dell’energia di cui c’è assoluto bisogno per rinnovare se stessa. Al dominio della gerontocrazia fa, ovviamente, eccezione Obama e lo stesso George Bush Junior che concluse il suo doppio mandato a 58 anni. Quest’ultimo, però, incarna la seconda costante che ha dominato la politica americana negli ultimi decenni: per competere devi essere miliardario ed essere parte di una di quelle che lo stesso The Economist chiama dinastie.

Ad una settimana dal voto sia Trump che Biden ci arrivano avendo raccolto ciascuno circa un miliardo e mezzo di dollari per la propria campagna ed è un fiume di denaro che cresce senza sosta: secondo la National Public Radio, quest’anno sia i Repubblicani che i Democratici hanno speso più del doppio della cifra consumata solo quattro anni fa. Enormi sono le barriere all’ingresso per poter partecipare e i social media alzano, ancora di più, l’asticella proiettando un’ombra sinistra sulla stessa idea di una competizione leale.

Anche senza arrivare alla cancellazione di un messaggio (lamentata da Trump) e ai sospetti di complotti stranieri (ipotizzata dai democratici), basta aggiustare l’algoritmo che – ogni giorno – Facebook o Twitter devono modulare, per filtrare le notizie che arrivano agli utenti ed alterare il risultato finale. 

Risultato che, peraltro – ed è il terzo limite di quella che è la democrazia americana – dipende da un legame fragile tra volontà degli elettori ed esiti delle elezioni. Con il sistema che assegna tutti i grandi elettori al candidato che ha avuto più consensi in un certo Stato, diventa quasi inutile che vada alle urne chi è democratico e vive nello Utah o nel Wisconsin; o chi, invece, è affiliato ai Repubblicani e risiede a Washington o a Boston. 
Per ragioni simili, la realtà è che i democratici hanno avuto più voti in cinque delle ultime sei elezioni e, però, sei dei nuovi giudici della Corte Suprema sono stati scelti dal Presidente Repubblicano. Basta, insomma, puntare alcune centinaia di milioni nella direzione giusta per vincere tutto. 

In queste condizioni, il legame tra politica e interessi privati arriva ad un livello che in Europa non abbiamo, ancora, conosciuto e ciò produce sclerosi in quella che era – ed è ancora a Silicon Valley – la terra dove si fabbrica futuro. Del resto, è solo la potenza delle corporazioni che può spiegare come è possibile che gli Stati Uniti non siano riusciti neppure a compiere riforme la cui urgenza sarebbe state definita “evidente” dagli scienziati e dai letterati che divennero costituenti nel 1776. Quali altri argomenti – oltre a quelli drammatici del Covid – servono per convincersi che il sistema sanitario americano sia quello più costoso ed uno dei meno efficienti del mondo? Com’è possibile che, neppure, Obama sia riuscito a mettere al centro dell’agenda del Paese la necessità di rifare delle Università l’ascensore sociale che erano prima che le rette aumentassero – dal 1980 – 17 volte di più rispetto al reddito mediano?

È evidente, appunto, che così la società americana si è ripiegata su diseguaglianze che sono, non solo, maggiori che negli altri Paesi, ma diventate inefficienti. Perché sempre più determinate dalla famiglia di provenienza (secondo l’Oecd solo in Italia e nel Regno Unito il reddito dei genitori è così fortemente in grado, come negli Stati Uniti, di determinare quello dei figli) e incapaci di premiare chi merita. 

Diseguaglianze sempre meno accettabili, dunque, ed è questa perdita di sogno che sgretola il consenso sociale in un sistema, aldilà delle fluttuazioni del prodotto interno lordo; è da questa profonda delusione che nasce il disagio che è brodo di cultura di interessati populismi.
«Ho passato la mia vita a misurare la distanza tra il sogno americano e la realtà» racconta sconsolato Bruce Springsteen in una canzone che fa da colonna sonora di un film di qualche anno fa. Lo stesso Jefferson riconoscerebbe che è venuta l’ora di cambiare profondamente un sistema che egli stesso aveva concepito, che ha dominato i secoli delle rivoluzioni industriali, per finire, infine, arenato nelle sabbie mobili che aspettano inesorabili tutte le grandi idee. 
È questa la sfida per la generazione che vorrà davvero farsi carico di salvare valori per i quali abbiamo bisogno di molta più energia, di quanta ne abbiamo vista nelle ultime stanche e costosissime campagne elettorali.
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