Giuseppe Vegas
​Giuseppe Vegas

Occidente e Islam / Se la politica ostacola il dialogo tra religioni

di ​Giuseppe Vegas
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Domenica 31 Marzo 2024, 00:16

Oggi è Pasqua, la festa più importante della cristianità. Per quelle strane coincidenze che a volte uniscono eventi opposti e obbligano a valutare come essi si confrontino tra loro, è recentemente scoppiata una piccola, ma significativa, controversia in merito alla decisione di una scuola pubblica nel milanese di sospendere le lezioni in occasione della festa per la fine del Ramadan.
L’episodio in sé non meriterebbe l’onore delle cronache. Si tratta di una decisione di un consiglio d’istituto, che, come tale, può determinare discrezionalmente una variazione del calendario scolastico. Il fatto è che, poiché si approssima una nuova tornata elettorale, nessuno è riuscito a resistere alla tentazione di buttarla in politica. E quindi di creare artificialmente uno scontro, dal quale ognuno si aspetta di far discendere profluvi di voti.
Invero la religione costituisce un fatto spirituale, che dovrebbe riguardare esclusivamente la libertà dei singoli individui. D’altronde anche nel mondo di oggi le religioni hanno lo scopo di offrire agli esseri umani la strada per perseguire l’obiettivo trascendente di ottenere un premio al termine della vita terrena. E il siffatto premio potrà essere conseguito esclusivamente se la persona rispetterà i principi del proprio culto nel corso della sua vita. Il precetto religioso ha dunque caratteristiche strettamente individuali, perché attiene alla salvezza dell’anima di ciascuno.
Altra cosa, e assai differente, sono i rapporti tra credenti di religioni diverse. Per chi, secondo l’insegnamento di Benedetto Croce, ritiene che la religione, rappresentando il più importante anelito dell’animo umano, costituisca un fatto squisitamente personale, il fenomeno non può che essere assolutamente distinto da quello politico. Viceversa, come ci ricorda una storia millenaria, quando della religione si fa un uso politico, esplodono odi feroci tra i popoli, con l’inevitabile conseguenza di lutti e tragedie. Il rischio di soffiare sul fuoco, soprattutto in una fase storica incandescente come quella odierna, è sempre dietro l’angolo. Occorrerebbe dunque cercare di evitare i conflitti e smorzare le tensioni. Solo con la prudenza e il buon senso pratico è possibile avviare un percorso verso una convivenza pacifica. Basterebbe far correre la memoria al periodo successivo agli accordi di Camp David del 1978 per comprenderne gli effetti positivi.
Ma c’è un altro fattore che, per quanto riguarda il nostro Paese, andrebbe considerato: la Costituzione. A differenza dello Statuto Albertino del 1848, che proclamava la religione cattolica, apostolica e romana come sola religione dello Stato, la Costituzione repubblicana di un secolo dopo, nel fissare il principio della libertà religiosa, ha definito un trattamento differenziato nel rapporto tra lo Stato e le diverse confessioni. Da una parte, ha sancito, nell’articolo 7, l’indipendenza e la sovranità della Chiesa cattolica e ha stabilito che i reciproci rapporti fossero regolati dal Concordato del 1929 e dalle sue successive modifiche. Dall’altra, nell’articolo 8, ha disposto che i rapporti con le altre confessioni siano definiti dalla legge, sulla base di specifiche intese con le singole confessioni stesse. Non si tratta di una differenza di poco conto. Per la Chiesa cattolica infatti è la costituzione che le garantisce direttamente il diritto di esercitare il proprio magistero nell’accezione più larga. Per le altre religioni, invece, occorre una legge per regolare le questioni che interferiscono con l’attività statale. È questo il caso dei contributi finanziari pubblici, in sede di ripartizione della quota dell’otto per mille del gettito Irpef, o del riconoscimento a fini civili dei matrimoni.
In questo quadro, mentre lo Stato ha sottoscritto numerosi accordi a seguito di intese con confessioni acattoliche, come la Tavola valdese, le Assemblee di Dio, le Chiese avventiste, le Comunità ebraiche, la Chiesa luterana, l’Unione buddista e quella induista, per ricordarne solo alcune, non è stato mai dato corpo ad un’intesa con l’Unione delle Comunità islamiche.
Il motivo per cui fino ad oggi ciò non è avvenuto, malgrado esistano in Italia moschee e scuole coraniche, è fin troppo evidente. Non dipende solo dalla questione, troppo spesso addotta come causa di incomprensione, della riconoscibilità dei matrimoni poligamici nel nostro ordinamento, quanto piuttosto dal fatto che, nell’attuale situazione di forte tensione tra occidente e mondo islamico, procedere ad un confronto diretto in materia religiosa potrebbe portare ad esacerbare le tensioni nei rapporti tra le due parti. Tensioni che potrebbero anche sfociare in veri e propri conflitti, che troverebbero la motivazione per una loro deflagrazione nell’insoddisfazione di una delle parti relativamente al testo della possibile intesa o all’interpretazione di alcune disposizioni della stessa. Un sano e desiderabile approccio di realismo politico consiglierebbe invece, per perseguire la via di una pacifica convivenza, di smussare gli angoli di un percorso di per sé accidentato ed attenuare ogni possibile motivo di tensione.
Un diverso approccio, nelle condizioni date, non potrebbe che essere foriero dell’insorgere di rivendicazioni da entrambe le parti: la conseguenza sarebbe che si andrebbero a contrapporre principi di derivazione religiosa, che, avendo un’origine divina, sono immodificabili dall’uomo e quindi non possono accettare compromessi. Se operare per definire un’intesa deve costituire un obiettivo irrinunciabile, pur tuttavia, non sembra essere questo il tempo di gettare benzina sul fuoco.
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