Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Il flop incentivi/ La cultura che serve per la crescita demografica

di Luca Diotallevi
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Mercoledì 10 Maggio 2023, 00:01

Presentando l’ipotesi di un robusto intervento di natura fiscale a sostegno della natalità, il governo, per bocca del ministro Giorgetti, ha aggiunto: non pensate che basti. Fermo restando che ciò non giustifica la rinuncia a politiche di questo tipo, è opportuno riflettere sulle parole con cui il ministro ha chiarito che in materia di declino demografico i soldi (da soli) non sono la soluzione.
In Italia anno dopo anno nascono sempre meno bambini. Questo, però, è solo un pezzo della realtà. Da decenni, infatti, la drastica riduzione della mortalità infantile e l’aumento della speranza di vita rendono più gravi e meno percepibili i livelli del dramma demografico. Se invece si tiene conto di tutti i fattori (i tre citati ed altri ancora), risulta che in Italia non solo vive un numero sempre minore di individui, ma anche che questi individui sono sempre più vecchi. 
Il declino demografico è ormai prossimo ad una ulteriore accelerazione e siamo sempre meno distanti da una soglia oltre la quale si trova un brusco scalino, in discesa. Una enorme quota di italiani si sta avvicinando alla parte inevitabilmente conclusiva della propria vita.

Di fronte ad una situazione del genere, per un verso è offensivo e fallace fare del moralismo, per altro verso è fuorviante non aver chiaro che accettare o non accettare di aver figli e figlie non dipende esclusivamente da incentivi e meno ancora da leggi. 
Chi nutre dubbi in proposito guardi al caso cinese. Diversi lustri orsono il partito-Stato ordinò di non fare più di un figlio. Qualche hanno fa, viste le enormi conseguenze negative di questa politica, arrivò il contrordine. Successe però che, mentre l’ordine aveva funzionato, il contrordine non funzionò.
Uno sguardo anche sommario alla storia demografica delle nostre società rivela che quando e dove si facevano più figli non si era affatto più ricchi di quando e dove se ne fanno molti, molti di meno. Questo non autorizza affatto a dedurre giudizi su chi non fa figli, ma indica le spiegazioni illusorie da evitare.
È vero che lasciar nascere un figlio o una figlia equivale ad una perdita. È inutile nasconderlo. Perdita di risorse materiali che potrebbero essere investite altrimenti, perdita di gradi di libertà importanti. Se non si parte di qui, si fa retorica. 
In un individuo il sentimento di povertà non nasce da un dato secco (quanti soldi ho), ma da un confronto (quanto ho rispetto a quanto potrei avere). Dunque, la scelta del fare figli o no non dipende semplicemente da quanto costano, ma anche e forse soprattutto da quanto percepisco che mi tolgono di ciò che altrimenti potrei avere, che desidero, di cui sento di aver diritto. Le aspettative sono un costrutto socio-culturale essenziale. Hanno un valore straordinario. Spingono avanti e fuori dal proprio bozzolo. Possono e debbono essere discusse, è suicida demonizzarle.
La tesi che non si fanno figli per egoismo va respinta e respingerla equivale a tornare con umiltà alla domanda: perché sempre più raramente si decide di mettere al mondo figli e figlie? Forse perché se abbiamo ben chiaro cosa i figli e le figlie tolgono al contrario abbiamo sempre meno chiaro cosa danno.

Dalla ignoranza di questo ultimo fattore deriva un calcolo assai diffuso, ma fatalmente sbagliato.

Abbiamo visto che è sbagliato pensare che far figli sia solo un problema di soldi. Egualmente è un errore terribile pensare ad un figlio o ad una figlia come ad un diritto, perché non si ha mai diritto ad “avere” un’altra persona. Ed è un errore pensare che un figlio od una figlia servano come assicurazione per il futuro: per la nostra vecchiaia, per la continuazione della specie o della nazione.
La domanda sul perché decidere di fare un figlio esige una risposta tangibile e credibile. Decidere di avere un figlio od una figlia significa riconoscere di avere la possibilità di fare una cosa grandissima: donare vita; non solo godere della vita, ma anche donare la possibilità di goderne. E ancora, significa impegnarsi ancor di più in quella che la tradizione chiamava “amicizia coniugale”, cioè accettare di condividere qualcosa di importante con un’altra persona, foss’anche attraverso ed oltre i rovesci della vita. Una cultura della natalità è finita, e non è un male viste tutte le volte che ha costretto le donne a far figli per le esigenze dei campi, delle fabbriche o delle armi; visti tutti gli alibi che ha offerto a tanti uomini per evitare di fare i padri.

Dopo quella vecchia, un’altra cultura della natalità s’è imposta: quella nella quale siamo immersi, che ha espresso valori importanti e che sta accompagnando la nostra società verso la scomparsa. Non solo però verso la scomparsa dell’Italia e degli italiani, ma anche e soprattutto verso un impoverimento secco della nostra autocoscienza, non aumentando dunque, ma riducendo la nostra libertà di scelta.
Il “mondo” di ieri non era affatto il migliore – benché ritenesse di esserlo – e per fortuna è finito. Nulla ci obbliga a considerare il “mondo” di oggi come il migliore, visto che potrebbe invece essere l’ultimo. Un’altra cultura però è sempre possibile. Di questa possibilità parliamo troppo poco, con troppo poco coraggio e con troppa
poca serietà. A riguardo il dibattito pubblico è persino più misero di quanto non lo siano le politiche. Che fare, allora: prima la cultura e poi le politiche? Domanda sciocca. Quello che si può fare va sempre fatto non appena si può, ma mai come alibi per non fare anche altro.

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