Alessandro Campi
Alessandro Campi

Il ruolo di Conte/ Gli accordi per il Colle e l’affidabilità del M5S

di Alessandro Campi
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Giovedì 25 Novembre 2021, 00:27


Le difficoltà nelle quali da settimane si dibatte Giuseppe Conte – che hanno finito per scatenare persino l’ingenerosa ironia di Beppe Grillo – sono lì a dimostrare che la politica è l’arte del possibile, non dell’impossibile: tipo prendere un partito populista della più bella acqua e trasformarlo in una sorta di Democrazia cristiana 4.0. E infatti il tentativo nemmeno è fallito, semplicemente non è mai iniziato. Forse da Conte si è preteso davvero troppo, come se bastasse partire da un carattere mite e incline al compromesso per arrivare a costruire una forza politica moderata, centrista, liberale, europeista, pragmatica, responsabile e chi più ne ha più ne metta. Nessun alchimista ha mai ottenuto l’oro dai metalli volgari.

Le difficoltà in questione stanno poi a dimostrare che la politica, comunque la sia voglia definire, contiene in sé un nucleo polemico-conflittuale: ogni cosa che la riguarda implica una qualche forma di lotta. Vuoi vincere le elezioni? Devi competere con gli altri partiti. Vuoi guidare un partito? Devi vedertela con chi desidera quella stessa poltrona. Vuoi andare al governo? Devi scalzare chi ha la tua stessa ambizione. Purtroppo per Conte con questa dimensione pugnace e volitiva della politica egli non si è mai dovuto confrontare. Durante la sua ancora breve carriera politica tutto gli è piovuto innaturalmente e fortunosamente dall’alto. Troppo comodo, troppo facile, troppo bello per durare all’infinito.

Le difficoltà ora richiamate – che si sostanziano nel fatto che Conte attualmente guida un partito che non lo segue – ci dicono infine che esistono parole della politica il cui abuso acritico durato anni ha finito per creare gravi distorsioni nei giudizi e nelle valutazioni sugli attori che la praticano. Prendiamo il termine leader, usato per indicare qualunque segretario di partito, anche il più grigio, incolore e burocratico. A furia di vedere capipopolo e trascinatori di folle dappertutto, segnati dal dono del carisma, non ci si è accorti che questi ultimi spesso non erano e sono altro che normalissimi uomini politici baciati da una momentanea popolarità mediatica. Finita quest’ultima, finite anche le loro virtù ritenute uniche e straordinarie. Conte un leader? Se permettete, deve ancora dimostrarlo.

Ciò detto, infierire dal comodo di una scrivania su chi si trova a prendere decisioni difficili stando nell’area politica italica – tra le più rissose al mondo – è un esercizio al limite dell’immorale. A Giuseppe Conte, in questi giorni di sbandamenti anche ingenui (vedi la pubblica denuncia della lottizzazione fatta da un ex-lottizzatore solo perché è rimasto a bocca asciutta), bisogna riconoscere almeno delle attenuanti. Certo, è stato lui a volere a tutti i costi la guida del M5S. Ma quello che gli è stato consegnato era già un partito dilaniato e in crisi di consensi, senza un’organizzazione degna di questo nome e, soprattutto, senza più una linea politica che non fosse stare al governo comunque e con chiunque. Non era e non è facile rimettere in linea, cioè normalizzare, un soggetto politico che negli anni è stato ideologicamente tutto e il suo contrario e che per anni, alla stregua di una setta pseudo-religiosa, ha tratto la propria ispirazione e ragion d’essere dalla parola del Fondatore-Padrone-Guida Suprema. 

Ma aggiungiamoci anche che in questa sfida Conte (almeno sinora) non è stato per nulla aiutato da chi avrebbe dovuto farlo. Da un lato c’è Grillo che avendo vissuto come una perdita personale la cessione ad altri della guida ufficiale del movimento non perde occasione per punzecchiarlo, sino allo sberleffo. Dall’altro c’è Di Maio che si comporta da campo-ombra pur continuando a dichiaragli in pubblico la massima lealtà.

Poi c’è l’ala rivoluzionaria, quella ortodossa e anti-sistema (Di Battista, ora persino la Raggi), che nei confronti dell’ex Presidente del Consiglio nutre una diffidenza per così dire estetico-antropologica: troppo azzimato, troppo educato, troppo democristiano d’osservanza pugliese. Per chi, come Conte, è in cerca di una faticosa legittimazione e alle prese con un complicato riposizionamento d’immagine, avere così tanti pseudo-amici non è certo un grande aiuto. 

Poi ci sono anche gli errori di valutazione che lo stesso Conte probabilmente ha commesso. Ha pensato ad esempio di poter trasferire nella sfera della politica di partito la rete di relazioni (interne e internazionali) che si era costruito negli anni passati a Palazzo Chigi. Chi ti ha dato retta nei panni di statista non è detto che sia disposto a seguirti anche ora che sei il capo di una delle tante tribù ideologiche che popolano il Paese. Un conto è guidare la nazione, altro capeggiare una fazione.

Lo stesso dicasi per la popolarità che Conte si era conquistato sempre in quel periodo: operazione facile quando andava tutte le sere in televisione, a reti unificate, a dispensare raccomandazioni e ordini agli italiani impauriti dalla pandemia, mentre adesso gli tocca guadagnarsi il panno della popolarità nei talk show rissosi.
C’è poi l’aver insistito troppo, quando era capo del governo, sul fatto di essere, più che un politico, o banalmente un tecnico, un “civil servant” al di sopra delle ideologie e dei partiti, uno che fa politica solo per amore del prossimo e del suo Paese. Durante la pandemia quest’auto-caratterizzazione da uomo super partes, da cittadino modello, poteva anche andare bene, ma ora i suoi elettori vogliono che sia invece uno di parte, schierato senza equivoci. Cosa che ancora gli riesce male e quando ci prova non appare troppo convincente.
Ma Conte ha calcolato male anche l’atteggiamento del Pd, che da quando è guidato da Letta, grazie anche ai buoni risultati elettorali, ha smesso di mostrarsi sempre succube del M5S (come nell’epoca zingarettiana) e troppo accomodante nei confronti dello stesso Conte. I rapporti di forza tra i due partiti ormai si sono invertiti e se si farà un’alleanza in vista delle politiche non sarà certo l’ex avvocato del popolo a poterne pretendere la guida. 

Il problema, tutto ciò detto, è cosa fare ora. L’emorragia dei voti grillini dura praticamente dal 2018: una discesa costante mese dopo mese. Nel 2023, alla scadenza naturale della legislatura, i voti potrebbero essere meno che nel 2022: dunque le elezioni anticipate sono per Conte, se non una necessità vitale, una sicura tentazione. Il che porta il discorso sul ruolo che il capo del M5S potrà giocare nella scelta del nuovo Presidente della Repubblica.

Nelle trattative tra i partiti per il Quirinale la regola è molto semplice: pesi come interlocutore se puoi garantire numeri certi (anche pochi, non importa, ma certi). In questo momento, il problema più grande di Conte non è la linea politica – tanto per forza nel calderone del centrosinistra il M5S dovrà finire – quanto il controllo sulla sua base parlamentare e a cascata, anche se le due cose non coincidono, sulla macchina partitica (al centro come in periferia). Ha poche settimane per dimostrare la sua forza reale nel nuovo ruolo che si è scelto. Un capo dimezzato, non riconosciuto dai suoi stessi uomini o incapace di imporsi trova prima o poi qualcuno che si propone di sostituirlo per il bene della causa. Continuando così, tra un penultimatum e l’altro, più prima che poi. 

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