Una nota marca di biscotti, da diversi giorni ha avviato una campagna pubblicitaria choc in cui si mostra una culla con la scritta: «2050, l’ultimo nato in Italia». Una previsione apocalittica. Ma è più di una provocazione. Gli effetti della crisi demografica stanno piombando sul sistema produttivo e industriale italiano con una velocità inaspettata. Nel ricco Nordest, in Veneto, le aziende non riescono a trovare manodopera e ora chiedono al governo, dopo averli osteggiati, più flussi di migranti. Nel turismo mancano 50 mila addetti ormai in maniera strutturale. Non si trovano più medici, infermieri, insegnanti. Ogni volta che un dipendente va in pensione, diventa sempre più difficile sostituirlo. In più, la mutazione genetica che sta avvenendo sul mercato del lavoro rende sempre più frequente la frase «grazie, le farò sapere» pronunciata non dai capi del personale, ma dai candidati che si presentano ai colloqui.
È perciò prevedibile che la crisi demografica, nei prossimi anni, avrà effetti anche sulla capacità dello Stato di fornire le sue principali prestazioni: pagare le pensioni ed erogare prestazioni sanitarie. Nel 2050, ha avvertito il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, il rapporto tra lavoratori e pensionati sarà di uno a uno. Significa che ogni lavoratore dovrà con la sua retribuzione pagare anche la pensione del padre. Insomma, il sistema sarà sempre meno sostenibile.
Che fare? La risposta è una sola: poiché è impensabile di poter sopperire alle carenze crescenti semplicemente aumentando i flussi di immigrazione sia pure qualificata, la curva demografica deve essere invertita oggi. Non si vedono alternative. E ogni politica andrebbe finalizzata a questo obiettivo. Responsabilmente, il premier Giorgia Meloni ha messo la natalità al primo punto del suo programma elettorale, mentre la principale riforma cui è chiamato il governo quest’anno, è quella del Fisco. Ebbene, il regime fiscale non è estraneo alle scelte di natalità delle famiglie: ciò viene puntualmente spiegato in ogni studio sull’argomento. E’ dunque un’occasione propizia che sarebbe perlomeno miope perdere.
L’impostazione dell’Irpef da quarant’anni penalizza le famiglie monoreddito e quelle numerose.
In Italia l’introduzione del quoziente familiare ha trovato sempre un grande ostacolo: il costo per lo Stato. Introdurlo ridurrebbe le entrate. Come del resto, però, qualsiasi riforma che voglia abbassare la pressione fiscale. Riforme che, generalmente, trovano una loro composizione nella “redistribuzione” dei carichi tra diverse categorie di contribuenti. Fino ad oggi la redistribuzione è stata sempre tra i redditi medio-alti e quelli bassi: chiedo di più a chi guadagna di più, per dare a chi guadagna di meno. Ma una tale redistribuzione porta con sé una palese distorsione: non tiene conto del numero di figli. Il paradigma della redistribuzione andrebbe perciò aggiornato: non solo dai “ricchi” ai “poveri”, ma dai single alle famiglie. Non per punire i primi, ma per un motivo razionale, con visione lungimirante. Saranno infatti i figli delle seconde a dover pagare pensioni e sanità future anche per i primi. Insomma, sarebbe una sorta di polizza di assicurazione per tutti. E il Paese potrebbe tornare a scommettere sul futuro senza l’incubo della progressiva rarefazione della popolazione.