Anna Coliva

Oltre il digitale/ Così la ricerca può rilanciare i nostri musei

di Anna Coliva
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Venerdì 1 Ottobre 2021, 00:13

Durante la pandemia il direttore del Museo Egizio di Torino ha rivolto un accorato appello ai colleghi dei musei autonomi invocando un patto per la ricerca. Una visione che svettava sulle innumerevoli proposte estemporanee scaturite in vista della riapertura dei musei dopo lo sgomento provocato dall’improvvisa desertificazione che ha lasciato senza risorse le cosiddette città d’arte, imponendoci un duro richiamo ad una realtà sconosciuta. Le proposte andavano dai percorsi tematici ai musei diffusi; dai nuovi allestimenti alla sempreverde banalità del recupero dei capolavori “nascosti” nei depositi dei musei. E poi i social, la realtà virtuale, il digitale: tanto digitale ovviamente, divenuto la nuova panacea che tutto risolverà, compresa la mancanza di vera innovazione. Insomma, bricolage.

La proposta di quel direttore, inspiegabilmente caduta nel vuoto, dovrebbe essere materia cogente, soluzione per uscire dalla fragilità del nostro sistema basato sulla monocultura del turismo e sullo sfruttamento passivo della redditività dei beni culturali. Si è preferito invece, in molti musei, farsi sedurre dalla novità (per noi) della comunicazione social. Lodevolissima naturalmente, anche al netto delle ingenuità neofite o della pervasività di stories che, incuranti della novità del mezzo, hanno inserito la modalità intrattenimento televisivo ad una didattica insieme pedante e ammiccante, da corso di ‘laurea breve’ 4.0. Fenomeni che scontano inevitabilmente il lampo acritico di tipo seduttivo di Instagram. Ma passerà, e digitalizzazione e social diventeranno, come sono da lungo tempo altrove, strumenti accessori e indispensabili della normalità gestionale.

Il museo italiano invece potrebbe recuperare in questo frangente quel ruolo ben più cruciale di luogo di osservazione, riflessione e sperimentazione interdisciplinare che era nelle utopie del dopoguerra e che dagli anni ottanta è stato sempre più deluso. E’ tornata l’urgenza del museo come luogo della ricerca, condizione insostituibile per renderlo una presenza viva e dinamica nella realtà, capace di raccontarlo meglio di una affabulazione sui social. Forse potrebbero avere finalmente buon esito i tentativi fatti da molti di noi -e tutti falliti- per affermare la ricerca quale elemento funzionale al museo. Ma erano altri tempi, anche se recenti: era l’era pre-covid. Ora si è presa drammaticamente coscienza della necessità del cambiamento e i mezzi per realizzarlo sembrerebbero rendere possibili quei progetti affossati e proporne di nuovi.

Sarebbe questo il momento di istituire nei grandi musei, di Roma in particolare, centri di ricerca avanzata capaci di irradiare dinamismo e attualità alla città circostante, liberandola dal convenzionalismo folkloristico e dalla retorica retrospettiva. Il ripristino dei musei quali realtà complesse sarebbe il passo per farne risaltare il ruolo di capitale, di misurarne la reputazione nell’unico modo valido per una città: il desiderio che suscita nelle persone di venirci a stare, lavorare o studiare. Si dovrebbe pensare a qualcosa di analogo all’École du Louvre per formare competenze museali di alto livello, veri specialismi inscindibilmente teorici e pratici in ambito curatoriale. Mancano infatti scuole che aderiscano a parametri internazionali, capaci di maturare un complesso pensiero di tipo interdisciplinare che faccia uscire le scienze umanistiche dall’autoreferenzialità in cui le ha tenute la nostra arretratezza accademica.

Un’alta scuola che non tenga più subordinate le professionalità dei musei a quelle dell’università e a modelli che si esauriscono nell’autoreferenzialità piccola della ‘giornata di studi’ quale surrogato di attività di ricerca strutturate in modo da produrre una irradiazione di conoscenza nuova.

Per salvare tutti noi, abitanti di città catturate nella trappola della retorica che inibisce il sentimento di seduzione emanato dall’antichità, serve un atto concreto di serietà: per esempio riunire le conoscenze storiche e tecniche sull’architettura romana e svilupparle congiuntamente in un centro internazionale di studi. Che potrebbe avere la sede simbolica presso un monumento emblematico come il Colosseo: magari dedicandola a Giovanni Battista Piranesi, nume tutelare dell’attualità progettuale e costruttiva dell’antico nelle problematiche del presente. Questa sì capace di esaltare Roma e la romanità fuori dalla pletorica genericità retrospettiva che la ridicolizza, sostituendola con una strutturale valorizzazione. Forse risulterebbe un’attrattiva internazionale più autorevole della piattaforma, questa volta nient’affatto digitale ma materiale e cementizia, concepita all’interno del monumento per spettacoli e eventi vari, per via della tendenza diffusa anche al MiC di confondere cultura con intrattenimento. Questo appena dopo che la stessa cultura è stata confusa a lungo con i “beni culturali” ai quali era prima intestato il ministero, per dichiarare risibili primati puntualmente distrutti dalle classifiche Ocse e Invalsi sui nostri livelli di formazione. Certo che se la cultura si misura con i metri quadri delle mura aureliane, delle terme, degli acquedotti meravigliosi, forse il primato c’è; purtroppo però la cultura non ci si infonde girando attorno al Colosseo. Cambiare prospettiva in una contingenza che esige un radicale rinnovamento del pensiero è una problematica complessa che richiede un pensiero forte: le scorciatoie, i trucchi, le capriole semantiche vanno accantonati. Certamente un ottimo espediente per svicolare dalla complessità è creare autorithy come quella per la cultura che pare sia stata proposta per risolvere i problemi di Roma, concepita già farcita di comitati monstre ancor prima di nascere. Sono ben sperimentati escamotage a garanzia del fatto che nulla si farà tranne che dribblare, attraverso l’assonanza con il termine straniero, l’autorevolezza del sapere. Per generare cultura serve un livello di eccellenza riconosciuto a dimensione internazionale capace di competere per la qualità dei docenti, le avanzate metodologie, l’attrattività per vitali risorse e i relativi indotti ora assorbiti da altre grandi capitali. Il ministero preposto ora battezzato Mic ha ormai abdicato alla funzione di progresso per assecondare vie più semplici, di formazioni genericamente storico-artistiche. Formule di semplificazione applicativa con risultati meramente impiegatizi anche se fatti transitare attraverso ipotetici Istituti di formazione, spettrali eppure costosissimi, che verosimilmente non attrarranno mai coloro che sono fuori dal circuito delle auto-nomine.

Spetta quindi alla ricerca, solo se indipendente da quei meccanismi, di porsi come elemento funzionale al museo, come invocava quel direttore.

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