Osvaldo De Paolini
Osvaldo De Paolini

Cda autoreferenziali /La riforma che serve sui consigli societari

di Osvaldo De Paolini
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Mercoledì 3 Novembre 2021, 01:13

Un sistema di governance equilibrato nelle imprese non è solo un segno di maturità della democrazia economica di un Paese. L’esigenza di garantire merito e qualità nella corporate governance, in particolare quando si tratta di rinnovare i consigli di amministrazione, è un tema cruciale per l’intero sistema perché tocca l’organizzazione dei poteri decisionali a ogni livello. 

Proprio per questo certi istituti devono essere utili al buon andamento delle società, e non invece trasformarsi in combinazioni padronali o del management capaci di produrre deviazioni dallo scopo iniziale; tantomeno diventare un veicolo per perpetuare un potere autoreferenziale, ponendo condizionamenti al diritto dell’azionista di influire sugli equilibri aziendali.

Da mesi la clausola che attribuisce al cda di una società la possibilità di presentare liste per il suo rinnovo è oggetto di dibattito per l’uso distorto che può venirne fatto in determinate circostanze. Va detto che l’opzione piace molto ai fondi internazionali, stante la sua diffusione nelle grandi corporation nord-americane, ove tuttavia l’azionariato è estremamente polverizzato e dunque manca la figura del socio di riferimento come è invece consuetudine diffusa in Italia.

Pur essendo negli ultimi anni entrata nella prassi statutaria italiana, al punto che oltre a Mediobanca e Generali l’hanno adottata una cinquantina di società, la “lista del consiglio” non è prevista né dal nostro codice civile né dalla legislazione che regola le società quotate. 

Si tratta di una modalità che discende da una lettura un po’ forzata del concetto di democrazia azionaria, che proprio per questo può portare a una pericolosa deriva qualora ne vengano tradite le finalità.
Come funziona? In breve, la clausola prevede che siano i consiglieri in carica a scegliere i propri successori secondo un modello che è tipico delle fondazioni, che però non sono imprese che perseguono il profitto e, pertanto, non sono interessate da una vera dialettica tra soci-proprietari e amministratori, tipica invece delle realtà aziendali. Va inoltre osservato che con la lista del consiglio viene anche rafforzato il criterio della cooptazione che, se di per sé non rappresenta un elemento negativo, di fatto rischia di trasformare la selezione dei consiglieri in un processo auto-referenziale, per cui coloro che sono in carica finiscono spesso per anteporre la loro rielezione al bene della società.

Potendo, tra l’altro, confidare sul meccanismo delle liste bloccate che impedisce all’assemblea dei soci la possibilità di esprimere o negare il proprio gradimento su singoli candidati.

Sicché la valorizzazione del ruolo degli amministratori cosiddetti indipendenti, nel mentre si costruisce la lista, somiglia molto a una foglia di fico. Facile concludere che, poiché puntano a essere riconfermati, anche gli indipendenti - oltre ai manager che partecipano al consiglio in virtù della medesima lista - sono in palese conflitto di interessi.La situazione risulta aggravata dalla mancanza di regole chiare relativamente alla procedura di formazione della lista, al punto da produrre effetti paradossali. Basti pensare alla circostanza che tutta la legislazione nazionale in materia di società quotate poggia sulla dialettica tra maggioranza e minoranza (cui è riservato un numero minimo di rappresentanti nel cda) e che, nell’ipotesi non remota di una lista del consiglio che finisca in minoranza, essa comunque parteciperebbe al riparto dei seggi pur non rappresentando alcuna minoranza.In assenza di regole, è legittimo pensare che la lista del consiglio possa diventare lo strumento dietro al quale si celano patti tra azionisti significativi e membri del cda uscente per perseguire obiettivi strategici ammantati di apparente razionalità, ma che nei fatti sono in danno dei soci e del mercato. 

Del resto, la raccolta di consensi attorno alla lista consiliare può essere facilmente influenzata dall’esistenza di rapporti commerciali tra la società e alcuni azionisti con quote significative sebbene non idonee a essere comprese tra le parti correlate (si pensi, per esempio, agli investitori istituzionali). 
È improbabile, infatti, che questi ultimi non assecondino, dietro promessa di rinnovo dei rapporti commerciali, le indicazioni di quello stesso management che gli ha assicurato, nel tempo, ricavi e incarichi.
Tutto ciò dimostra la necessità di un intervento urgente del legislatore su questo delicato strumento, il cui utilizzo, ancorché importato da consolidate esperienze straniere, va calibrato in base ai limiti del contesto normativo italiano e con le specificità dei casi concreti.

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