Hollywood scritturò il Duce, Mussolini protagonista di "The Eternal City"

Hollywood scritturò il Duce, Mussolini protagonista di "The Eternal City"
di Fabio Ferzetti
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Martedì 7 Ottobre 2014, 08:42 - Ultimo aggiornamento: 9 Ottobre, 20:13

Mussolini guarda in macchina. E non in un cinegiornale Luce, ma in una superproduzione hollywoodiana. Titolo: The Eternal City, La Città eterna. Data di produzione: 1923, a meno di un anno dalla Marcia su Roma, perché le riprese furono effettuate d’estate. Produttore: una delle leggenda di Hollywood, l’ebreo polacco Shmuel Gelbfisz, meglio noto come Samuel Goldwyn, che con quel film tratto da una pièce dell’allora popolarissimo Hall Caine, adattata con disinvoltura al nuovo quadro politico italiano, si lanciava nella produzione indipendente.

Con lo sfarzo che era il suo marchio e uno stuolo di compagni d’avventura di prima grandezza. Dal regista George Fitzmaurice, futuro “director” della Garbo, alla star Lionel Barrymore, capostipite della dinastia di attori che arriva fino a Drew Barrymore, e già allora così importante che le riprese si interruppero per consentirgli di sposarsi e fare la luna di miele.

Senza dimenticare il “collaboratore” massimo, naturalmente: sua eccellenza Benito Mussolini, che saltò sull’occasione concedendo agli americani tutto ciò che poteva.

Comparse a migliaia. Assistenza continua («Mussolini era così entusiasta del progetto che teneva il suo ufficio aperto per noi a qualsiasi ora», ricordava il cineoperatore Arthur Miller). Esterni unici al mondo (impressionanti le scene di massa girate dentro e intorno a un Colosseo ancora circondato dal vuoto). Oltre alla sua stessa persona, in una breve apparizione che lo consacra deus ex machina e Uomo della Provvidenza.

GLI ULTIMI RULLI

A lungo dato per perso, forse anche perché politicamente imbarazzante, The Eternal City è riapparso negli archivi del Museum of Modern Art di New York, da cui ha preso il volo per approdare alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, dove sarà presentato oggi in anteprima da Giuliana Muscio, la studiosa che lo ha scoperto. Non per intero purtroppo: a essersi salvati sono solo gli ultimi due rulli, 28 minuti che però danno un’idea molto precisa di questo concitato melodramma politico che sancisce il fugace ma vertiginoso incontro tra la potenza seduttiva di Hollywood e quella di un dittatore ex giornalista che avrebbe fatto del cinema «l’arma più forte».

Ma perché l’America democratica “correva in soccorso” del vincitore Mussolini? Come scrive la Muscio in catalogo, «nel 1923 un film che glorificava Mussolini e il fascismo non era per Hollywood una presa di posizione così sconcertante come può sembrare a posteriori». Le parate fasciste sembravano fatte apposta per il grande schermo, il dittatore era ancora percepito dal pubblico più sprovveduto come un eroe popolare, e il suo anticomunismo dovette sembrare una garanzia più che sufficiente a Goldwyn.

LE LOCATION

Il quale del resto pensava soprattutto alla grancassa spettacolare. Tramontata ormai la grande stagione del muto italiano, il Bel Paese era già allora una location ambitissima per la bellezza e l’esotismo carico di storia. Henry King stava preparando due film da fare in Italia con Lillian Gish, la diva di Griffith, che era a sua volta intenzionato a girare nel paese di Cabiria. Sono anche gli anni del culto mondiale di Rodolfo Valentino, un fenomeno di cui oggi, all’epoca di Internet, si stenta a misurare l’importanza (il suo ultimo film, Il figlio dello sceicco, 1926, sarebbe stato diretto proprio da Fitzmaurice, ancora una coincidenza). Insomma l’Italia al cinema era già allora di moda. Perfino il mitico Ben-Hur di Fred Niblo con Ramon Novarro in un primo momento doveva essere girato “dal vero” sotto il Colosseo.

Ragione di più per puntare sulla “città eterna” commissionando alla compagna del regista, Ouida Bergère, un adattamento della pièce originale così radicale (il protagonista, da socialista, diventava fascista!) che Hall Caine tentò di bloccare la produzione e poi di togliere dai titoli il suo nome. Giustamente del resto, perché a uscire trionfatore dal film è proprio Mussolini. Che intuendo il ritorno d’immagine internazionale garantito da quella superproduzione, si prodigò in ogni modo.

Le camicie nere, tristemente esperte in materia, assicuravano il servizio d’ordine sul set. In cambio il film si riempiva di fez, manganelli e saluti romani. Fino alla scena culminante in cui Mussolini in persona, alla sua scrivania, grazia l’eroe e suggella l’happy end con bacio tra i due amanti ritrovati sullo sfondo di piazza Venezia.

Ironicamente, e per ragioni mai chiarite, The Eternal City non arrivò mai in Italia ma provocò lunghe code e manifestazioni di giubilo fra gli italoamericani di New York. La storia poi avrebbe preso un’altra direzione. Ma quella frazione di secondo in cui l’occhio del duce incontra la macchina di Hollywood, mette ancora i brividi.

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