Il tenore Francesco Meli presenta l'opera che inaugura La Scala il 7 dicembre: «Il mio Don Carlo, un eroe moderno che combatte senza spada»

Il Don Carlo kolossal, con la regia di Lluis Pasqual, che inaugura La Scala il 7 dicembre, andrà in diretta su Rai1 e Radio3. Assenti Mattarella e Meloni. Protagonista il tenore Francesco Meli: «E' la mia sesta inaugurazione, ma oggi, nel ruolo del titolo, l’emozione è alle stelle»

Il tenore genovese Francesco Meli, 43 anni, nei panni di Don Carlo, per il 7 dicembre al Teatro alla Scala
di Simona Antonucci
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Domenica 3 Dicembre 2023, 15:00 - Ultimo aggiornamento: 4 Dicembre, 14:31

«Ei la fe’ sua! Sventura! Io l’ho perduta... E lo ripete, lo ripete il suo tormento di avere a corte, come madre, la donna di cui è innamorato e che era promessa a lui. Andata in sposa al padre per ragion di Stato, di potere». Il tenore genovese, Francesco Meli, 43 anni, presenta il suo Don Carlo «non un perdente, ma un uomo schiacciato dalla società e dalla famiglia», che il 7 dicembre inaugura la stagione del Teatro alla Scala. Una produzione «tradizionale nella scena, ma contemporanea nell’approccio alla lettura del testo», con la regia «shakespeariana» di Lluís Pasqual, scene di Daniel Bianco in alabastro, che ha sempre un odore di incenso, di chiesa, e costumi di Franca Squarciapino che richiamano i grandi pittori spagnoli.

 

Lo spettacolo kolossal andrà in diretta televisiva (per la prima volta in 4K) su Rai1 e radiofonica su Radio3: la conduzione è affidata a Milly Carlucci e Bruno Vespa, in collegamento con Serena Scorzoni nel foyer. In platea (assenti il presidente Mattarella e la premier Giorgia Meloni), il presidente del Senato, Ignazio La Russa, il vicepremier Matteo Salvini e il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. L’opera, che ha già inaugurato la Scala otto volte va in scena nella versione (Verdi ne ha realizzate almeno cinque) scritta appositamente per il teatro milanese nel 1884. Sul podio il direttore musicale Riccardo Chailly, sul palco, un cast di assoluto prestigio: Anna Netrebko alla sua sesta inaugurazione, il basso Michele Pertusi, il baritono Luca Salsi, Elīna Garanča, Ain Anger e Meli come Don Carlo: «E' la mia sesta inaugurazione, ma oggi, nel ruolo del titolo, con il nome nella locandina accanto a Don Carlo, l’emozione è alle stelle».

Un personaggio tormentato nel privato e nel pubblico. A chi si è ispirato?

«Si è parlato di un Amleto.

Io lo sento più vicino a Werther perché è caratterizzato da una malinconia latente. Un uomo fragile, perché più sensibile, che non coglie appieno la realtà e non la combatte. Cerca l’estasi, astraendosi. Non è un romantico, né un amoroso in senso classico, è un eroe moderno, anche da un punto di vista del canto».

Come canta?

«Cambia continuamente. Una prova importante. Sempre in scena, ma mai totalmente protagonista. Esagerato, esasperato, inerme. Anche quando la donna di cui è profondamente innamorato (condizione rara in un’epoca di matrimoni combinati) va in sposa al padre, il re Filippo II. “Gran Dio”, invoca aiuto, “sono maledetto”. Ma la spada non la impugna. Si rifugia in bolle di estasi».

I conflitti Stato-Chiesa, padre-figlio, temi attualissimi, verranno raccontati su un palco cinquecentesco, con abiti d’epoca: le piace così?

«Un allestimento classico, dominato da pochi elementi scenici, anche un po’ astratti. Non c’è la reggia, ma una grandiosa pala d’altare, con i cantanti che prendono posto nelle nicchie dei santi. Ma non è questo il punto. La disputa non può essere circoscritta a un contrasto tra tradizione e contemporaneo. Ma tra scelte intelligenti e letture arbitrarie che stravolgono la storia».

Quindi?

«La lotta del potere, i conflitti generazionali possono andare in scena anche alla Casa Bianca, tanto per dirne una, tra le tante che ho visto. L’importante è che il padre abbia con il figlio lo stesso rapporto analizzato dall’autore».

Eppure Verdi, di libertà con la storia, se ne è prese tante. O no?

«Il suo è l’Otello di Verdi, con libretto di Boito, ispirato a Shakespeare. Ognuno è libero di reinventare come vuole, basta scrivere: liberamente tratto da... E poi Otello va fatto con il viso scuro, altrimenti diventa una storia di gelosia come le altre».

Lei è considerato uno dei grandi tenori verdiani del momento: un titolo che cristallizza il suo repertorio?

«Un grande onore, frutto di anni di studio. Però, sì. Soprattutto perché i direttori dei teatri procedono a compartimenti stagni. In passato, un cantante veniva chiamato per Manon Lescaut di Puccini, l’Aida di Verdi e poi L’elisir d’amore di Donizetti. Oggi succede raramente, ma un bell’Elisir d’amore lo farei volentieri anche io».

Alla vigilia della sua sesta inaugurazione, perché secondo lei La Scala è il punto di riferimento universale della lirica?

«Perché è il più grande teatro lirico al mondo. E non è mai diventato una “fabbrica” di spettacoli». 

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