Il filosofo Marc Augé: «Il mare dei profughi e le parole dei media, ecco i nuovi non-luoghi»

Il filosofo Marc Augé: «Il mare dei profughi e le parole dei media, ecco i nuovi non-luoghi»
di Carmine Castoro
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Sabato 19 Settembre 2015, 18:31 - Ultimo aggiornamento: 24 Settembre, 21:06
Il cambiamento delle geografie urbane, soprattutto dopo la grande ondata dei migranti. Il tempo “surgelato” delle nostre coscienze che fluttuano in un eterno presente fatto di interazioni virtuali, piattaforme tecnologiche e gli pseudo-eventi dello Spettacolo.



Le possibilità di liberarsi da questa trappola globale ritrovando l’entusiasmo della critica, un nuovo sguardo estetico sul mondo, l’avventura dell’avvenire. Vera e propria star del Festivalfilosofia targato 2015 in corso a Modena, Carpi e Sassuolo, Marc Augé, notissimo etnologo e filosofo francese, già directeur d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, di cui è stato a lungo presidente, si è concesso a dibattiti ad ampio respiro sulle svolte cruciali della contemporaneità, lui che ha sempre messo al centro delle sue riflessioni sull’uomo i rapporti fra singolo e comunità, confini e condivisioni, logica e senso.



Professor Augé, ogni volta che ci incontriamo le chiedo un aggiornamento sui famigerati non-luoghi, oggetto di un suo famoso studio negli anni ’90. Gli spazi collettivi che condividiamo sono sempre all’insegna della solitudine, della mancanza di memoria e di relazioni stabili?

«Non direi che qualcosa è cambiato perché nella definizione di non-luoghi non c’è qualcosa di empirico ma di teorico, che possiamo comunque applicare. E penso che quando le relazioni sono assenti o non perfettamente simbolizzate, cioè non caricate di simbolismo, possiamo tranquillamente parlare di non-luoghi. E’ diventato tipico nella diffusione di questo concetto riferirsi all’aeroporto, ma tanti spazi possono diventare non-luoghi: quello che conta sono le relazioni e reti che si sviluppano in essi».



Le cronache ci rimbalzano l’esistenza di nuovi terribili non-luoghi: le aree di smistamento di profughi, certe barriere neutrali di contenimento, lo stesso mare non più luogo di attraversamento delle differenze ma cimitero…

«Sì certo, è così: come dire, tutto può essere non-luogo e luogo, dipende da come lo problematizziamo».



Se parliamo di eredità e avventura come nella sua Lectio a Carpi, ci imbattiamo nel tema dell’identità su cui oggi si allunga l’ombra degli etnocentrismi e dell’integralismo.

«Il tema dell’identità è molto complesso: distinguerei fra identità individuali e collettive, e queste ultime possono essere mortali. Ci sono tre dimensioni: l’identità individuale nella quale ciascuno di noi è unico, quella culturale - che è la più complicata - si basa su reperti che ci tengono insieme come uomini immersi in gruppi sociali e in precise gerarchie, e poi c’è una terza dimensione generica, nel senso che in ogni essere possiamo percepire diverse sfaccettature dell’umanità, “tutto è nell’Uomo” diceva Sartre. È un problema di rispetto delle differenze che però andrebbe applicato fino alla fine, fino al raggiungimento dell’obiettivo, cioè in ciascuna cultura dovrebbero essere rappresentate tutte le differenze presenti all’interno di essa, e questo è uno dei più grandi problemi attuali».



La colpa non è anche dei media che ci offrono una rappresentazione del mondo sempre frammentaria e senza visioni di ampio respiro? Il più grande non-luogo non è proprio la parola dei linguaggi di massa?

«I media rappresentano proprio l’immagine più simbolica del non-luogo, perché il non-luogo è il contesto di tutti i luoghi, e i media rendono benissimo questa impressione. Oggi si ascoltano molte parole che in realtà non hanno materia, non hanno sostanza».



Professore, lei si è molto soffermato nelle sue opere sul “regime delle paure”, sulla loro “matassa”: non è oggi l’insicurezza la moneta simbolica più veloce e carica di profitto?

«Si, le paure attuali sono paure che hanno il dono dell’ubiquità e che vengono veicolate dal contesto della comunicazione, dell’informazione; noi vediamo ciò che accade negli altri paesi, nel momento in cui certi eventi drammatici accadono, e quindi sono proprio gli organi di diffusione di queste notizie che hanno il portato dell’ansietà, che si costituiscono come un vero e proprio elemento ansiogeno».



Lei ha sostenuto recentemente che, ben oltre i soliti rituali sociali, è l’arte l’unica capace di svegliarci, di farci aprire gli occhi…

«L’arte contemporanea crea un problema perché pone delle domande. Ed è testimonianza dell’inquietudine e dell’incertezza. Noi eravamo abituati a un’arte che dava delle risposte, mentre quella contemporanea pone delle domande ma non ci dà delle risposte e crea un pubblico che si interroga incessantemente».



Insomma professore, ci aspetta un futuro da rassegnati o da ribelli? Faremo la fine dei Minions, depressi e infelici se non hanno un tiranno che li domina?...

(Ride, mentre si fa spiegare la trama del film…)

«Non conosco bene questo cartone animato, ma sono d’accordo su questa visione… Io penso che siamo in un momento di cambio di scena epocale che riguarda la nostra capacità di misurazione del tempo e dello spazio. Le nostre tradizionali coordinate di tempo e di spazio non sono più adeguate per comprendere il presente. Questo cambiamento in cui siamo immersi genera in noi una situazione ambivalente, da una parte angoscia, dall’altra anche curiosità. Io credo che per affrontare questo cambiamento molto grande serva una rivoluzione educativa, un cambiamento strutturale che riguardi la nostra educazione, e che non toccherà da vicino solo la nostra generazione, quella attuale, ma molte altre nel futuro».