"La casa di mio padre": l'impresa del prete che salvò 6.500 persone durante l'occupazione nazista di Roma grazie a un falso coro in Vaticano

"La casa di mio padre": l'impresa del prete che salvò 6.500 persone durante l'occupazione nazista di Roma grazie a un falso coro in Vaticano
di Ebe Pierini
3 Minuti di Lettura
Sabato 30 Marzo 2024, 20:02

C’è Roma. Praticamente in ogni pagina di questo romanzo ve ne è uno scorcio. C’è la città eterna con la sua moltitudine di guglie che pare un puntaspilli, con le sue maestose basiliche all’imbrunire, con le sue centinaia di chiese, il cibo, l’arte, la bella vita, le moltissime lingue. Roma che è come la tavolozza di un pittore: un chiaroscuro di rosa bruniti, rame anticato, noce, miele, avorio, caffellatte. Che ha anche una musica tutta sua, una sonata per pianoforte ma anche le scampanate dei vespri. C’è Roma con il Quirinale, gli Orti Farnesiani, Fontana di Trevi, l’Arco di Costantino, Santa Maria Maggiore, Cola di Rienzo, i mercati rionali, piazza Navona, le rive del Tevere. E poi ci sono i romani che “sembrano usciti da un Caravaggio”.

Ma c’è soprattutto la storia di un uomo che è realmente esistito e che ha salvato la vita a 6.500 persone tra civili, militari e perseguitati ebrei. “La casa di mio padre” di Joseph O’Connor (Guanda) è ispirato alla straordinaria impresa di monsignor Hugh O’Flaherty, che ha rischiato in prima persona per opporsi agli occupanti nazisti.

Il romanzo è ambientato nel 1943, in una Roma occupata dai nazisti. Una città messa in ginocchio nella quale la popolazione vive nella paura e non c’è più cibo. Paul Hauptmann, comandante della Gestapo, che nella realtà storica è Herbert Kappler, governa con il pugno di ferro e con ferocia. È in questo clima di incertezza e di paura, dopo aver visto di persona gli orrori dei campi di detenzione nazisti, che il sacerdote irlandese, che vive e lavora nello Stato del Vaticano, considerato neutrale, decide di lottare contro i soprusi dei nazisti. E lo fa con la complicità di un gruppo davvero eterogeno di collaboratori: la contessa Giovanna Landini, l’ambasciatore inglese Sir Francis D’Arcy, il suo segretario John May, il colonnello Sam Derry, Delia Kiernan, moglie del console olandese, la giornalista Marianna De Vries e l’edicolante Enzo Angelucci.

Sono loro a dare vita ad un coro musicale che si riunisce in Vaticano con la scusa delle prove e in realtà mette a punto le missioni di salvataggio nei minimi dettagli per dare rifugio a ebrei, soldati alleati e a chiunque altro ne abbia bisogno presso le residenze vaticane, gli istituti religiosi, conventi, le case di volenterosi privati. La missione più importante e pericolosa viene pianificata per la sera della vigilia di Natale ed il protagonista ne è proprio il monsignore.

Campione di boxe ed abile giocatore di golf, Hugh O’Flaherty per la sua capacità di beffare i nazisti viene ribattezzato la “primula rossa del Vaticano”. Le SS tentano di ucciderlo diverse volte senza mai riuscirci. Dopo la guerra il monsignore si reca più volte in carcere per incontrare l’ex capo della Gestapo di Roma, Kappler, nel frattempo catturato dagli inglesi. A seguito di queste visite quest’ultimo si è convertito al cattolicesimo.

Nel 1960 viene colpito da un ictus e fa ritorno nella sua Irlanda a casa della sorella dove muore, a 65 anni, il 30 ottobre 1963. In sua memoria è stato piantato un boschetto di alberi nel Parco Nazionale di Killarney. La sua figura e la sua storia sono state raccontate nel film Scarlatto e nero, del 1983, nel quale il monsignore viene interpretato da Gregory Peck.

“La casa di mio padre” consegna alla memoria la figura poco conosciuta, che non troviamo nei libri di storia, di un uomo coraggioso che ha dovuto scegliere ogni giorno tra obbedire ai suoi voti o alla sua coscienza, che ha sfidato i nazisti, ha saputo guidare un piccolo esercito di impavidi angeli e ha salvato migliaia di vite da una morte certa in una Roma sempre meravigliosa ma oppressa dall’occupazione tedesca e dalla paura.

© RIPRODUZIONE RISERVATA