Hemingway contro Saunders, realismo contro surrealismo

Hemingway contro Saunders, realismo contro surrealismo
di Luca Ricci
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Sabato 27 Giugno 2015, 10:02 - Ultimo aggiornamento: 10:04
Leggendo “Bengodi” di George Saunders (minimum fax, pag. 213, 16,00 €) la prima riflessione che mi viene da fare riguarda la realtà, o meglio il realismo della letteratura americana. Nata sotto l’egida di Edgar Allan Poe e Nathaniel Hawthorne, almeno per quanto riguarda i racconti, la letteratura americana, che fino a quel momento si era rifatta agli stilemi della vecchia Europa (anche per questa ragione Baudelaire tradusse entusiasticamente Poe in francese), venne reinventata nel novecento da Hemingway, il quale non fece altro che applicare un paio di buone dritte giornalistiche ai suoi testi: cosi il “tale”- come si chiamavano gli strani racconti di Poe e Hawthorne- si trasformò in “short story”.



Non c’è dubbio che l’opera di Hemingway sia stata decisiva per quella che Gianni Celati chiama “l’invenzione della realtà”. Nel suo saggio in apertura dell’antologia “Storie di solitari americani” (Bur 2006, pag. 364, 12,00 €) scrive: “Si afferma il metodico scrivere realistico, con alternanza meccanica di dialoghi e descrizioni, dove l’assoluta impersonalità dello stile simula una registrazione come quella della fotografia. Sarà l’impianto di migliaia di racconti: neutra tecnica (…). Questa realtà senza misteri corrisponde a un’invenzione della normalità, più o meno come si inventa un brevetto. Di qui in poi gli autori potranno proporre le loro storie nello stesso modo in cui sono proposte le notizie giornalistiche”.



E’ il trionfo della modalità realistica di volta in volta declinata in vari sottogeneri, dall’hard boiled al minimalismo, che per quasi sessant’anni (almeno fino all’irruzione del postmodernismo: si pensi a tre romanzieri fluviali come Pynchon, DeLillo, Wallace) farà l’asso pigliatutto in America, e di conseguenza influenzerà il modo di scrivere di molte altre culture (colonizzate dall’America prima di tutto sul piano geopolitico: si pensi qui da noi all’ammirazione spesso acritica di un Vittorini o di un Fenoglio). L’inerzia a favore del realismo sarà così forte da far arruolare tra le sue fila scrittori ibridi come Salinger, o Malamud, o Cheever (il cui esito più alto, “Il nuotatore”, è in realtà un notevole racconto fantastico).



Le divinità del pantheon della “short story” sono arcinote. Oltre a Hemingway, Richard Yates, Raymond Carver, Mary Robinson, John Updike, Tobias Wolff, Richard Ford hanno inflazionato la narrativa breve di battute di caccia e di pesca, barbecue e pic-nic, supermercati, bevute e crisi coniugali. Tutto ricade nei confini del noto- sebbene la narrazione sfumi nell’ambiguità o si cristallizzi nell’iperrealismo (più vero del vero, e perciò falso)-, per una genia di scrittori che potremmo definire- tutti, senza distinzioni- i Čechov d’America.



Anche George Saunders racconta la middle class americana alle prese con i sogni pop dell’economia capitalista, ma come smarcandosi dall’ombra lunga del realismo dei suoi illustri colleghi. Nella preziosa prefazione di “Bengodi” scrive: “Ho sempre amato Hemingway e durante tutti i corsi di scrittura ho fatto varie imitazioni di Hemingway. Quando mi stancavo facevo l’imitazione di Carver, poi di Babel (…) Capii che avevo messo tutte le mie capacità naturali dietro una specie di paravento. Per esempio: il senso del ritmo, la velocità, lo scatologico, l’irriverenza, la compressione, la malizia”. Il successo di Saunders, per certi versi imprevedibile (nel 2013 è stato inserito dalla rivista Time fra le 100 persone più influenti del mondo), deriva anche da questo: il suo surrealismo ha fatto tornare la letteratura americana alle radici, ha ricongiunto “short story” e “tale”. E di colpo ha accesso i riflettori su tanti scrittori passati e presenti più simili a lui che a Hemingway: Donald Barthelme, Aimee Bender, Charles D’Ambrosio, David Means.



Twitter: @LuRicci74