Chiara Muti: «La mia Manon, una donna passionale che la società non perdona»

Il deserto al centro della regia della Manon Lescaut, dal 16 in scena a Tokyo, firmata da Chiara Muti
di Simona Antonucci
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Venerdì 14 Settembre 2018, 20:23 - Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 16:43

In valigia, i gioielli che le fanno girare la testa e i corpetti che fanno girare la testa ai suoi corteggiatori. Insieme con tanta sabbia, quella del deserto in cui è sprofondata la sua vita. Manon saluta i salotti parigini e si affaccia dall’altra parte del mondo, protagonista a Tokyo della tournée del Teatro dell’Opera di Roma. Dove, la sventurata seduttrice, la “deserta donna”, si scambierà il testimone, sul palco del Bunka Kaikan, con un’altra sciagurata eroina della lirica, Violetta. Entrambe chiamate a rappresentare (Traviata di Verdi fino al 17 settembre, con la regia di Sofia Coppola, e Manon Lescaut di Puccini dal 16 al 22, con la regia di Chiara Muti) il bello dell’Italia e le eccellenze della Fondazione capitolina.
 

 


«I giapponesi amano profondamente la nostra cultura e quella francese. E sono attenti conoscitori della nostra musica. Credo che Manon sia il personaggio ideale per questo incontro. Ricca di sfumature, passionale, contraddittoria: seppur emblema di un certo passato, lei è incredibilmente attuale. Una donna che usa il proprio corpo per trovare un posto nella società».

Chiara Muti, alla vigilia del suo esordio orientale, ripercorre la nascita dello spettacolo che debuttò al Costanzi, con suo padre, Riccardo Muti, sul podio, e il soprano Anna Netrebko nei panni della frivola e tragica ragazza, accanto al tenore, che diventerà suo marito, Yusif Eyvazov, interprete di Des Grieux. E che in Giappone verrà riproposto da Kristine Opolais (Manon), Gregory Kunde (Des Grieux), Alessandro Luongo (Lescaut) e Maurizio Muraro (Geronte). Con Donato Renzetti sul podio.

Chi è la sua Manon?
«È la Manon di Puccini. Che, paragonando la sua eroina a quella di Massenet, scriveva: non alla francese, con le ciprie e i minuetti, ma all’italiana, con passione disperata. Puccini la perdona. Non la tratta da cortigiana, ce la presenta subito come vittima degli uomini della sua famiglia che decidono del suo destino. Le fa dire: una fanciulla povera sono io. E io aggiungo che è una ragazza costretta a far tesoro della sua bellezza e della sua giovinezza in un contesto che altrimenti l’avrebbe utilizzata».

E lei perdona le ragazze che si comportano così?
«Manon era attratta dai gioielli, dalla ricchezza. Come lo sono tante giovani fanciulle di oggi. Schiave dell’apparenza e dell’apparire. Per molte, molti, sicuramente non tutti, contano i soldi, o forse ancora di più i follower. Un mondo che assomiglia al deserto di Manon che, però, era pronta al sacrificio per amore».

Come Violetta, nella Traviata, sempre qui in Giappone, con la regia della sua collega Sofia Coppola: che affinità ci sono tra le due donne?
«Mordono entrambe la vita. Una per intuizione interiore, l’altra per malattia, dovevano vivere appieno la giovinezza. Perché una volta sfiorite, non avrebbero più avuto un posto nella comunità».

Finiscono per prostituirsi per sopravvivere.
«E pagano. La società non le perdona. Ma sono tutti pronti, invece, a giustificare Don Giovanni. Ed è ancora così: un libertino piace, ma una donna libera? Viene emarginata, confinata in un deserto».

La sabbia, la desolazione, sono al centro della sua idea registica.
«Puccini fa morire Manon stremata, senz’acqua, in una landa sterminata ai confini di New Orleans. Io le metto il deserto addosso sin dalla prima scena. Non ho modificato nulla, ho mantenuto l’ambientazione del Settecento francese perché secondo me quest’opera ha bisogno della sua epoca. Ma ho lasciato che tutto sprofondasse nella sabbia. Dall’incontro con Des Grieux al salotto di Geronte. Quando ruba i gioielli prima di fuggire, li cerca scavando nella polvere: Manon il deserto ce l’ha dentro».

Spesso il maestro Muti, suo padre, “bacchetta” le scelte di alcuni suoi colleghi che non rispetterebbero la musica. Quando gli ha detto che avrebbe fatto proprio la regista, lui come ha reagito?
«Mio padre non è contro le regie all’avanguardia, lui combatte il cattivo gusto. E io combatto contro l’obbligo della trovata. Se manca l’exploit lo spettacolo viene etichettato “convenzionale”. Come se non contassero più la direzione dei cantanti, il lavoro con le luci, i costumi. Su questo, ci troviamo perfettamente d’accordo. Da sempre, sin da quando lui mi ha spinto a mettermi alla prova».

E che cosa le disse? Lo ricorda?
«Mi ha detto: penso che tu possa farlo. E poi, quando si presentò l’occasione della Sancta Susanna, di Hindemith, fu proprio esplicito: voglio farla con te. Io ascoltavo l’opera fin da bambina, a sette anni già conoscevo molti titoli a memoria. Poi mi sono indirizzata più verso il teatro. Lui è riuscito ad aprire le porte a un desiderio che avevo dentro».

Non si è mai sentita in imbarazzo, giudicata come figlia di...?
«Prima di lavorare con mio padre, avevo avuto accanto Strehler. Non ho cominciato così, spuntando dal nulla. Teatro, anche un po’ di cinema, canto. Poi, con lui, Sancta Susanna, la Manon e ora dopo il Giappone volo a Napoli dove cominciamo insieme Così fan tutte». Per l’inaugurazione del San Carlo, e per il ritorno del maestro a dirigere un’opera in Italia, dopo l’uscita dal Costanzi.

Come sarà?
«Emozionante.
Ma dello spettacolo aspetterei a parlare. Vorrei almeno dare inizio alle prove. Avremo un mese e mezzo di lavoro: papà è così. E anche io. Un’idea certo che ce l’ho già. Così fan tutte è pura metafisica. Io la sento così». 

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