Hopper al Vittoriano, in mostra le opere dell'artista amato da Hitchcock e Antonioni

Hopper al Vittoriano, in mostra le opere dell'artista amato da Hitchcock e Antonioni
di Fabio Isman
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Venerdì 30 Settembre 2016, 21:19 - Ultimo aggiornamento: 5 Ottobre, 22:25
Ritorna a Roma quella icona della contemporaneità che si chiama Edward Hopper (1882 - 1967): 60 opere dal Whitney Museum di New York, da sabato al 12 febbraio, saranno al Vittoriano per una mostra organizzata da Arthemisia, curata da Barbara Haskell, del museo americano, con Luca Beatrice (cat. Skira). Realizzazioni che spaziano dagli esordi alla piena maturità; coinvolgono anche i disegni (nell'arte, era maestro); guardano con occhio particolare, rappresentato in catalogo da un saggio di Goffredo Fofi, al cinema: perché i suoi quadri iperrealisti, la quotidianità americana che ha sempre raccontato, hanno ispirato tanti autori famosi. Da Alfred Hitchcock (Psyco, La finestra sul cortile), a Dario Argento (in Profondo rosso è citato il suo Blue bar); fino a David Lynch e Michelangelo Antonioni: troviamo abbondanti tracce del pittore ne Il grido, Deserto rosso e L'eclisse.

Si va da un Autoritratto del 1903 - 6, di quando Hopper si stava ancora preparando a scuola, ai primi panorami; alle tele del secondo viaggio a Parigi (all'estero, ne farà tre in tutto); alle opere iconiche, come Il faro a due luci del 1927; o della maturità, come Il mattino in South Carolina, del 1955, e il Secondo piano al sole (1960); ma anche Wine shop (1909), l'Interno a New York (1921), e la Sera blu del 1914, realizzata a Parigi e lunga circa due metri. Tutto è ripartito in sei sezioni: i ritratti e i paesaggi, disegni preparatori, incisioni e olii, acquerelli e le immagini, immancabili, femminili. Una retrospettiva che offre un quadro di tutta la personalissima produzione, all'inizio ispirata dall'Impressionismo che aveva visto, ma che ha sempre voluto interpretare in maniera del tutto originale.

Le opere di Hopper sono ormai nei maggiori musei, iniziando forse da quello d'Arte moderna di New York; però il Whitney (votato al contemporaneo, e fondato da Gertrude Vanderbilt Whitney nel 1931: la sua raccolta di 500 dipinti era stata rifiutata dal MoMa) ne possiede il maggior numero; il museo ha traslocato, di recente, nella nuova sede creata da Renzo Piano; e il pittore già si era visto al Museo del Corso. Da poco, una sua mostra importante si è svolta a Bologna.

«È raro che il nome di un artista si trasformi in aggettivo», spiega Luca Beatrice; così, accanto al «cinema felliniano», abbiamo le «storie hopperiane», che sono raccontate con una cifra unica e inimitabile. A volte intimista; altre anche desolata; talora (in qualcuna delle sue donne) perfino tristissima; però, sempre introspettiva. Quel senso di «incredibile potenzialità nell'esperienza quotidiana» del quale i suoi quadri sono ridondanti, ce lo fa riconoscere a prima vista. Anche per il taglio, sempre cinematografico.

E di quello «noir», dice Fofi, egli «assume il gusto per una immagine fredda e razionale, anti-barocca», che esprime «una tensione anche architettonica, anche geometrica». Un artista che «piace» subito; nelle cui storie, che sono la storie dei nostri giorni, in tanti si riconoscono e talora perfino s'identificano. Da qui il suo successo; che, negli ultimi tempi, lo porta (forse suo malgrado) a essere pure una «star» della pubblicità, non importa per che prodotto. «Personaggi perduti come in un deserto» (è ancora Fofi); e se, almeno talora, fosse anche proprio il nostro?