La “Bellezza invisibile dell’Iraq” nel docufilm su Latif Al Ani, il padre della fotografia irachena

Uno speciale viaggio tra la memoria e la realtà, presentato al “Red Sea International Film Festival, in corso a Jeddah in Arabia Saudita

La Bellezza invisibile dell’Iraq nel docufilm su Latif Al Ani, il padre della fotografia irachena
di Rossella Fabiani
4 Minuti di Lettura
Martedì 5 Dicembre 2023, 12:55

«Le foto sono meglio delle parole. Se non fossero rimaste queste immagini, nessuno avrebbe mai creduto che il mio Paese, prima, era così bello». Sono parole di Latif Al Ani, il “padre della fotografia” irachena e il suo Paese è, appunto, l’Iraq. Come era prima di tutte le guerre che lo hanno attraversato devastando e trasformando paesaggi urbani e villaggi rurali, alcuni abbandonati, altri ricostruiti in un modo che ha cambiato per sempre il loro aspetto originale. Comincia così uno speciale viaggio tra la memoria e la realtà. È un itinerario struggente e al tempo stesso delicato quello che racconta il film-documentario “Iraq’s Invisible Beauty” (“La Bellezza invisibile dell’Iraq”) presentato al “Red Sea International Film Festival, in corso a Jeddah in Arabia Saudita.

Il docufilm

E Latif Al Ani in persona ne è il personaggio narrante che ha accompagnato le riprese durate cinque anni – tanti ce ne sono voluti per mettere insieme, pezzo dopo pezzo, questo singolare affresco – fino alla morte che lo ha portato via il 18 novembre del 2021, a Baghdad, quando il montaggio del film non era ancora finito.

C’è emozione nelle parole di Jurgen Buedts e di Sahim Omar Kalifa – l’autore e il regista – che hanno presentato “Iraq’s Invisible Beauty” prima della proiezione. «Latif è morto senza poter vedere un lavoro al quale si era appassionato. Per lui è stato un viaggio nel tempo che, in certe situazioni, lo ha quasi fatto arrabbiare nel confrontare le foto scattate decine di anni fa con le immagini del presente. In altre lo ha commosso, come quando ha rivisto i volti della moglie sorridente e dei due figli piccoli, tutti morti».

Nella sua lunga carriera – le prime foto sono degli Anni Cinquanta – Latif Al Ani ha fermato sulla pellicola più di 200.000 immagini. Purtroppo, con la distruzione degli archivi fotografici dell’agenzia di stampa irachena per la quale ha lavorato, ne sono rimaste meno della metà e molte sono in giro per il mondo. Jurgens Buedts ne aveva viste alcune esposte in una mostra al Trocadero, a Parigi. Lo avevano colpito perché l’Iraq che ritraevano sembrava un altro Paese. Aveva chiesto se il fotografo che le aveva scattate fosse ancora vivo ed era riuscito a rintracciarlo. E da lì è partita tutta l’avventura della realizzazione di questo film-documentario che è stata difficile perché ci sono stati momenti complicati per la situazione sul terreno e le interruzioni del lavoro sono state più lunghe delle riprese. Ma il risultato è eccezionale. Davvero unico: per le immagini del passato e del presente e per i ricordi personali di Latif. Che ha sempre un atteggiamento molto composto, che non si lascia mai andare a giudizi politici.

È stata semplicemente la sua vita. Dai fasti cosmopoliti degli Anni ’50, dall’opulenza dell’industria dell’oro nero con i suoi pozzi e la costruzione del primo grande oleodotto – allora Latif lavorava per l’Iraq Petroleum Company – fino alla rivoluzione baathista, all’ascesa di Saddam Hussein. Tutto testimoniato dalle foto di Latif Al Ani che, intanto, era stato assunto dall’Agenzia di stampa irachena. Nelle parole con le quali Latif racconta le sue foto il rimpianto è per quella stagione della vita, non per un regime o un altro. Il regista Sahim Omar Kalifa – che nel documentario appare sempre al fianco di Latif e gli rivolge le domande – racconta che una volta gli aveva chiesto un giudizio. «Ma mi vuoi far perdere la pensione?», fu la riposta di Latif.

Nato a Baghdad nel 1932, il “padre della fotografia irachena” ha esposto anche alla Biennale di Venezia del 2016, nel padiglione dell’Iraq. Un anno prima aveva ricevuto il prestigioso Prince Claus Award assegnato dalla casa reale olandese. Ha girato per l’Europa, si è fermato soprattutto in Francia. È rientrato a Baghdad quando aveva 84 anni e, in pratica, il lavoro per questo film-documentario lo ha accompagnato fino alla morte. Quello presentato al Festival del Mar Rosso a Jeddah, nella sezione “Red Sea New Vision”, è quasi un testamento artistico che è stato già proiettato in rassegne cinematografiche quest’anno in Belgio, Inghilterra, Danimarca, Stati Uniti e che, sempre in dicembre, andrà anche al Festival del Cinema di Duhok, in Kurdistan. E c’è da augurarsi davvero che possa arrivare presto anche in Italia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA