Tim Burton si specchia nei Big Eyes di Margaret Keane

Tim Burton si specchia nei Big Eyes di Margaret Keane
di Fabio Ferzetti
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Martedì 30 Dicembre 2014, 18:26 - Ultimo aggiornamento: 13 Gennaio, 19:58
​Che cosa guardano gli occhioni sgranati e tristissimi delle bambine dipinte in serie da Margaret Keane? Non si sa, e qui sta il bello. Ognuno può pensare ciò che vuole. Resta che quell’intensità così kitsch, e quella tristezza così innegabile, negli anni 50-60 diventarono una moda, entrarono nelle case di divi e celebrità, e di lì conquistarono gli Usa. Se non in termini di prestigio e riconoscimento critico, almeno in quanto a opere vendute. E questo è un fatto.



Il secondo fatto è che quelle opere, riprodotte con ogni possibile tecnica, diventarono un esempio addirittura stupefacente di arte di massa, con largo anticipo su Andy Warhol e la sua Factory. Puri oggetti di consumo. Merce in mezzo ad altra merce, anche se etichettata e valorizzata come arte, destinata a produrre un volume d’affari gigantesco.



Poi c’è un terzo fatto, che è il cardine di Big Eyes (in sala dal 1° gennaio), il film dedicato da Tim Burton all’avventura dei tanti “Keane” che appaiono sullo schermo. Ovvero i quadri, numerosissimi e tutti molto simili, dunque immediatamente riconoscibili; la loro autrice, Margaret Keane; infine suo marito, Walter Keane. Un pittore dilettante e del tutto incapace che però era un grandissimo venditore e sul talento della moglie avrebbe costruito una fortuna.



Anche se per raggiungere il successo non avrebbe esitato, prima quasi per caso e poi con metodo e ostinazione, a spacciarsi per l’autore di quelle tele. Costringendo la moglie all’invisibilità, oltre che a una vera superproduzione, mentre lui inondava il mercato di bambine dagli enormi occhi tristi.



Si capisce che Tim Burton, antico estimatore delle tele di Margaret Keane, si sia innamorato di questo personaggio abbastanza dimenticato (ma tuttora vivente), riesumato dai suoi vecchi complici Scott Alexander e Larry Karaszewski, già sceneggiatori di Ed Wood, che ne hanno fatto molte cose insieme. Una protofemminista, che prima soccombe al marito impostore (ma anche grande imprenditore), poi si ribella e lo trascina in tribunale. Una paladina del diritto di tutti, creatori e spettatori, a decidere cosa è bello.



Infine una vera artista, sia pure a suo modo, un po’ sul genere di Ed Wood, «il peggior regista del mondo», ma anche un eroe del cinema di serie Z, tanto refrattario a ogni norma estetica e produttiva quanto intimamente convinto della propria creatività, insomma un freak innamorato di altri freaks. Come il suo prediletto Bela Lugosi, l’attore di Dracula, e naturalmente lo stesso Tim Burton, che sull’amore dei mostri e per i mostri ha costruito uno dei percorsi artistici più personali e entusiasmanti degli ultimi trent’anni.



Solo che la povera Margaret Keane (una Amy Adams fin troppo acqua e sapone), prima donnina sottomessa anni 50, poi ribelle suo malgrado, fuggiasca e testimone di Geova, non ha la complessità psicologica e esistenziale di Ed Wood. E per quanti sforzi facciano regista e sceneggiatori, Big Eyes pende costantemente dalla parte di suo marito Walter (un Christoph Waltz a briglia sciolta). Che ha tutti i difetti del mondo, ma oltre a rubarle la scena rende il film troppo esplicito e sempre al di sotto della densità necessaria.



Chiarita la truffa infatti, il mistero - artistico e umano - resta. Inesplicato e in buona parte inesplorato. Anche se nel film compaiono, a rinforzare una sceneggiatura spesso traballante, un giornalista pettegolo e compiacente (il soave Danny Huston), un gallerista snob ma con le idee chiare (uno spiritoso Jason Schwartzman) e un critico tetragono e battagliero (un irascibile Terence Stamp).



Chi erano davvero Mr. e Mrs. Keane? Perché lei ci mise tanto a ribellarsi? E con che occhi dobbiamo guardare i suoi quadri? La risposta è lasciata agli spettatori, ma il film resta sempre vagamente reticente. A ben vedere è il problema di tante biografie “autorizzate” (la vera Keane appare anche nel film, seduta su una panchina). I migliori freaks sono quelli creati di sana pianta. Usando, come meritano, un’immaginazione senza limiti.
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