Bentivoglio premiato al Milazzo Festival
"E ora interpreto Pirandello in un film"

Alla rassegna siciliana l'attore ha presentato in anteprima un irresistibile monologo sulla sua carriera

Fabrizio Bentivoglio nel film "Eterno visionario"
di Gloria Satta
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Domenica 10 Marzo 2024, 17:00
Dal Clark Gable a Strehler, da Shakespeare a Marrakesh Express, e poi Romolo Valli, Suso Cecchi D’Amico, Beppe Barra, Mastroianni, ”Scialla”, DeNiro, Volonté...Una cavalcata irresistibile lungo la sua carriera quarantennale, tra incontri e successi, speranze e sacrifi: è ”Piccolo almanaco dell’attore”, il monologo che Fabrizio Bentivoglio, anche autore, ha presentato tra gli applausi in anteprima mondiale al Milazzo Film Festival. Dedicata all’arte dell’attore, la rassegna si è chiusa in bellezza nella città siciliana sotto la nuova, indovinata direzione artistica di Mario Sesti e Caterina Taricano e dopo aver ospitato Lino Banfi, Michele Riondino, Caterina De Angelis.
Bentivoglio, 67 anni e da oltre 40 sotto i riflettori, ha ricevuto l’Excellence Acting Award e incantato il pubblico raccontando con leggerezza il percorso che la ha condotto ad essere un talento di punta del teatro, del cinema, della tv. Sposato con Silvia Pippia da cui ha avuto tre amatissimi figli dagli 11 ai 16 anni, l’attore ha appena finito le riprese di ”Eterno Visionario”, il film di Michele Placido in predicato per partecipare al prossimo Festival di Cannes. Fabrizio interpreta Lugi Pirandello. A cui, sullo schermo, somiglia in modo impressionante.
Cosa racconta il film?
«Il viaggio che Pirandello affronta nel 1934 per andare a ritirare il Nobel a Stoccolma. Ma ci va senza Marta Abba, la sua musa, e durante il tragitto ripercorre i momenti più importanti della sua vita».
Cosa si aspetta?
«Che la figura di Pirandello diventi ancora più accessibile alle persone che, dopo averlo conosciuto forse troppo presto a scuola, magari lo considerano noioso, impolverato. Il film rivelerà i lati umani del grande drammaturgo, i suoi affetti, le sue relazioni. E il suo talento sconfinato che lo porta a soffrire quando decide di rendere universali i suoi tormenti personali».
E com’è nata l’idea del monologo che ha presentato a Milazzo?
«Dai miei sensi di colpa per non aver mai voluto tenere lezioni di recitazione o masterclass».
Perché?
«Detesto sentirmi chiamare maestro. In più, il nostro mestiere non s’insegna ma s’impara sul campo».
Come mai decise di fare l’attore?
«Da ragazzo mi sembrava di non essere capito e vidi nel teatro una magnifica possibilità di esprimermi».
Ma è vero che si era iscritto alla facoltà di Medicina?
«Sì, ma solo per compiacere mio padre dentista. Un giorno stavo preparando l’esame di Anatomia 1 quando alla radio ascoltai l’intervista di un giovane che si era appena diplomato al Piccolo Teatro. Fu una folgorazione. Mi sottoposi all’audizione e venni preso. La recitazione mi ha aiutato a crescere. Se non avesso fatto l’attore, sarei un uomo peggiore».
Cosa sta facendo in questo momento?
«Da due anni continuo a rappresentare in giro per l’Italia, con grande soddisfazione, lo spettacolo teatrale ”Lettura clandestina - la solitudine di un satiro” di Ennio Flaiano».
Dopo il successo delle due prime stagioni di ”Monterossi”, tornerebbe a recitare in una serie tv?
«Sì, è stata una bella esperienza che rifarei anche perché ho stabilito un ottimo rapporto con Alessandro Robecchi, l’autore di ”Torto marcio” a cui la serie è ispirata».
Al Milazzo Festival ha presentato il suo unico film da regista ”Lascia perdere, Johnny!” del 2006: non avrebbe voglia di fare il bis?
«Sì, ma la voglia non basta. Bisogna avere anche un buon progetto, e io sono un tipo da tempi lunghi. ”Lascia perdere, Johnny!” mi somiglia come un figlio e fare la regia di un film è un'assunzione di paternità in tutti i sensi. Nel 2007 è nato il mio primo figlio, che poi è una figlia, quindi ne ho avuti altri due. Diciamo che ho completato così la mia filmografia».
Negli ultimi tempi ha interpretato diverse commedie, sorprendendo chi ha sempre visto in lei un attore drammatico, tormentato.
«Si tratta di uno stereotipo. La comicità è sempre stata una parte di me, forse non abbastanza riconosciuta prima. Un attore deve saper fare di tutto, l’importante è che sia capace di recitare».
Se dovesse raccontare in sintesi il suo mestiere?
«Ruberei la battuta di Clark Gable: ”Fare l’attore è difficile solo nei primi 30 anni”. Poi vai in discesa». 
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