Accorre il ministro dell'Interno, Minniti, alla fermata del salto in aria. Le ambasciate di svariati Paesi vogliono sapere subito che cosa è successo. Il botto che ha sconvolto Roma non è quello di un camion-kamikaze, eppure sembra di stare a Karachi nel Pakistan insanguinato. O a Beirut nei suoi momenti peggiori. E non si sa se sorridere mestamente - ma davvero non ci si riesce - pensando al centro dell'Urbe come a un pezzo di Saigon coloniale, martoriata dagli attentati nel romanzo di Graham Green, «L'americano tranquillo».
O bruciati o appiedati è dunque il punto di caduta finale, ma sembra che non ci sia mai la fine, di una crisi che si chiama degrado. E quell'alone di bruciato, che sale lungo la strada e lungo i palazzi, rende ancora più nere le speranze di resurrezione. Il fumo di Via del Tritone, guardato con fratellanza da quel cumulo di spazzatura abbandonata dall'altra parte della strada, somiglia a quella «nuvola di depressione» che Carlo Verdone - così ha raccontato - vede dal suo balcone del Gianicolo e descrive come «il buio del magnifico fallimento della mia città».
SALTO DI QUALITA'
E questo ennesimo fattaccio Atac non riguarda il solito contesto dei disservizi, degli incidenti continui, delle vetture scassate, dei travet che marcano visita, del pansindacalismo, della scioperite e degli altri mali endemici di questo vecchio mondo da azienda partecipata. Stavolta, il 63 che è il numero 13 dei bus finiti in fiamme quest'anno, e ha 15 anni di anzianità che sono troppi per dare sicurezza, è quello che costringe all'assurdo i cittadini romani: per cui se senti un boato, la prima cosa a cui pensi da adesso in poi non è che trattasi di una bomba ma di un mezzo pubblico in panne. «A Roma più che gli autobus, ci sono gli autobum!», si legge su Twitter. E il Signor Ernesto scrive così: «A Roma ci si dà fuoco per protesta contro la giunta che impedisce la risoluzione della vicenda Atac. E questo è il tredicesimo suicidio eclatante dall'inizio dell'anno». Ma anche la conferma del normale abbandono dei servizi pubblici in cui tutto è senza regole e controlli, e pure l'impianto elettrico di una vecchia vettura per passeggeri è lasciato a se stesso e nell'indifferenza e nell'incuria può accadere di tutto. Alla scenografia della città bucherellata - dove solo le voragini stradali svettano, e solo qui questa non è un'immagine contraddittoria - si aggiunge il fuoco come compagno del peggio, e così il quadro è più completo.
Per l'intera giornata, in cui non si è potuti passare da questo pezzo di città che pareva colpito dell'Anti-Stato e invece è stato martirizzato dal detonatore della malagestione ordinaria, i romani e i turisti si attaccavano al telefono in mezzo al caos del traffico in tilt, cercando qualche dritta dai propri interlocutori: «Ma dove devo andare per andare dove devo andare?» Qui no, è chiuso. Da questa parte, neanche: non si può. L'assenza di manutenzione di un bus - il famo a fidasse tra la macchina e l'uomo - ha danneggiato tutti. E se la strada fosse stata più stretta, magari Via Due Macelli, proprio lì dietro, o qualche altra via del centro dove passano i mezzi pubblici, l'esplosione avrebbe potuto provocare vittime. E se il 63 fosse saltato in aria in mezzo al traffico a Piazza Venezia, quante lamiere sarebbero schizzate da tutte le parti, quante macchine sarebbero andate a fuoco con il bus? La scena di guerra di ieri sarebbe potuta diventare scena di sangue. Il degrado sarebbe sfociato in morte. E non sono affatto incongrui tweet del tipo: «Attacco nel cuore di Roma rivendicato dall'Atac».
Walter Benjamin diceva che Roma è il luogo che «solo cambiandogli il nome, possiamo smarrire». E però, a nome immutato, stiamo rischiando ugualmente di smarrirla. Perché se somiglia a Karachi, o a Kabul, senza neppure quel senso di ineluttabile tragedia che travolge e disanima quelle città, non è più Roma. E se viene sfigurata dallo scoppio di un sistema elettrico significa che non è sicura, non dà sicurezza e di insicurezza, anche quando non si muore materialmente si muore lo stesso.
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