Casini: «Netanyahu non è Israele, i suoi errori aiutano Hamas. In Russia tornati i lager»

Il senatore ed ex presidente della Camera: «Il 7 ottobre è stato una pagina di barbarie, ma non giustifica un nuovo orrore. L’Europa è un nano politico se non mette in comune la difesa»

Casini: «Netanyahu non è Israele, i suoi errori aiutano Hamas. In Russia tornati i lager»
di Mario Ajello
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Sabato 17 Febbraio 2024, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 11:53

Pier Ferdinando Casini apprende della morte di Navalny ed è sgomento. «E’ un eroe della resistenza. Da un po’ di tempo, siamo tornati ai lager siberiani. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi su ciò che diventata la Russia di Putin, deve solo aprire gli occhi», così dice il senatore ed ex presidente della Camera. Il quale è molto preoccupato guardando lo scenario internazionale e vedendo - insieme al conflitto russo-ucraino che sta per compiere due anni - ciò che accade in Medio Oriente. 
Casini, ormai è il mondo intero e non solo gli Stati Uniti a dire a Netanyahu: fermati! Perché invece la strage di Gaza continua? 
«Netanyahu è pienamente legittimato a fare quello che ritiene opportuno, perché è stato scelto dagli elettori israeliani. Ma noi siamo pienamente legittimati a evitare l’identificazione tra Israele e Netanyahu. I Paesi rimangono, i governi passano. E questo è un principio che vale soprattutto per i Paesi democratici come Israele. La pretesa di far coincidere la difesa di Israele con l’accettazione della politica dell’attuale governo va respinta al mittente». 
Sta sbagliando tutto il capo dell’esecutivo di Tel Aviv?
«La sua politica è stata miope. Ha lavorato per indebolire l’Autorità palestinese di Abu Mazen, già infiacchita dalla corruzione. Inoltre Netanyahu ha chiuso gli occhi davanti agli ingenti finanziamenti che, da parte dei Paesi del Golfo, arrivavano ad Hamas. Il risultato è stato il 7 ottobre. Un evento che richiama le peggiori pagine del nazismo. E’ ovvio che Hamas non ha a cuore i destini del popolo palestinese ma quelli dell’Iran e anche della Russia. Il popolo palestinese è doppiamente vittima: sia della politica di Hamas sia di quella di Netanyahu».
Lei come giudica le parole del premier israeliano con cui rifiuta lo schema “due popoli, due Stati” dicendo: «Non faccio regali»? 
«Che lui sia contrario a questa soluzione lo si è capito da tempo. Sennò, non avrebbe incentivato gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e non avrebbe favorito l’estremismo violento dei coloni. Mi ha molto colpito la frase di Blinken. Ha detto il segretario di Stato americano: l’orrore subito da Israele non può giustificare nuovo orrore». 
Si aspettava, da parte della Santa Sede, posizioni così nette contro l’azione del governo di Tel Aviv a Gaza? 
«La Chiesa ha sempre assunto una posizione equilibrata. Il cardinale Pizzaballa, il segretario di Stato, Parolin, e il Santo Padre hanno sempre condannato senza esitazioni le violenze contro Israele. Ma non possono accettare ciò che sta accadendo a Gaza. Come si può pretendere che la Chiesa chiuda gli occhi davanti a 30mila vittime civili? Non mi meraviglio della reazione della Chiesa, visto che non può avere un doppio standard ma un’unica linea: condanna le violenze dove ci sono e quando ci sono. Senza distinzioni. Il 7 ottobre - lo voglio ripetere - è una pagina di barbarie e di orrore nel mondo moderno. Su questo, dubbi ed esitazioni non sono accettabili. Non facciamo errori che possono soltanto aiutare Hamas, regalandogli il monopolio della causa palestinese. Non può essere un caso che chi ha servito Israele anche in armi, penso a Benny Gantz, abbia diviso nei mesi scorsi i propri destini da quelli di Netanyahu. Proprio per non essere complice di una deriva estremista».
Come si ferma questa deriva? 
«Credo che l’opinione pubblica di Israele farà sempre più sentire la propria voce. E confido che uno Stato democratico, l’unico in quella regione, non perda la bussola. È chiaro che serve allo stesso tempo una leadership credibile dell’Autorità palestinese. Una leadership che non abbia nulla a che fare con Hamas e che sia in netta discontinuità rispetto ad Abu Mazen. Non a caso il nome di Barghouti, detenuto da anni nelle carceri israeliane, potrebbe essere la soluzione vincente per avere, da parte dello Stato ebraico, un interlocutore forte». 
L’Europa che cosa può dire e che cosa può fare? 
«Purtroppo l’Europa in questa vicenda, come nel Mediterraneo in generale, non conta nulla. E lo dico con grande tristezza. Si va verso le elezioni europee e nessuno dice con chiarezza l’unica cosa da dire: che se vogliamo orientarci nella globalizzazione del terrore dobbiamo mettere in comune la politica estera e di difesa. Sennò, saremo sempre dei nani politici». 
La possibile vittoria di Trump come inciderà su tutto ciò?
«È notorio che io non sono un fan di Trump e spero che l’eventualità che vinca non si verifichi. Ma una cosa dev’essere chiara: dobbiamo assumerci la nostra responsabilità nel campo militare, anche aumentando il budget sia pure nelle pieghe di un bilancio difficile. Questo ce lo chiedono, dall’America, sia i democratici sia i repubblicani. E oltretutto corrisponde a un nostro interesse, se vogliamo uscire da una fase di infantilismo politico. La dimostrazione di quello che sto dicendo è nel Mediterraneo. Dove i Paesi europei, che sono andati in ordine sparso e penso alla Francia e all’Italia, non contano niente. Perché il neo-ottomanesimo della Turchia e la Russia, dopo il ritiro degli americani, sono diventati i padroni in quell’area». 
A proposito della Russia, due anni di guerra in Ucraina che cosa insegnano? 
«Che bisogna resistere. Perché accettare la capitolazione dell’Ucraina significa accettare che vinca la prepotenza russa. Oggi la minaccia investe pesantemente l’Ucraina e domani potrebbe riguardare direttamente alcuni partner dell’Unione europea». 
Ma che cosa c’è nel mondo che non funziona, visto tutto il moltiplicarsi delle crisi? 
«Il discorso è lungo, ma una cosa è certa.

Mai come oggi, assistiamo a una crisi drammatica del multilateralismo. Il potere “persuasivo” delle Nazioni Unite, e anche degli organismi di governance economica mondiale, è ridotto a zero. Siamo all’impotenza. Mi auguro che, a partire dal G7 a presidenza italiana, si possa ripristinare un sistema di regole capace di governare le crisi globali. Abbiamo organizzazioni costruite sull’equilibrio geo-politico della seconda guerra mondiale. Ma oggi è cambiato tutto e si rischia il peggio».

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