Pino Santarelli, dal Pc al crollo del Muro: la diaspora post-comunista a Roma

Il racconto attraverso 26 interviste ai protagonisti di allora - titolo: «Io c’ero» (Editore Bordeaux)

Pino Santarelli, dal Pc al crollo del Muro: la diaspora post-comunista a Roma
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Martedì 27 Giugno 2023, 11:19

Che strano effetto. Avere nostalgia di qualcosa che non si è stati, di qualcosa che non si è vissuto, di qualcosa a cui - magari - non si sarebbe aderito, ma al massimo si sarebbe osservata con curiosità e rispetto questa storia che è quella della Fgci e del Pci a Roma negli anni ‘60 e ‘70, del ‘68 nella Capitale e dei vari movimenti della sinistra anche extraparlamentare. Eppure l’epopea raccontata da Pino Santarelli attraverso 26 interviste ai protagonisti di allora - titolo: «Io c’ero» (Editore Bordeaux) - è appassionante e viene la voglia di esserci stati dentro. Anche se generazionalmente sarebbe impossibile. Tutto ciò suscita simpatia umana, interesse politico e appunto una profonda nostalgia: la nostalgia di quando si credeva, si partecipava, si militava, ci si poneva domande, si faceva ideologia ma anche circolazione di idee. E ci si mescolava tra appartenenti a classi sociali diverse in una Roma che era, grazie alla politica, molto meno disunita di quella di oggi, più intrecciata tra centro e periferie, più viva nello slancio verso un’idea di società forse utopistica (il superamento delle diseguaglianze, la giustizia sociale, un orizzonte aperto a tutte le possibilità, a tutte le speranze di emancipazione e a tutti i diritti) o cattiva (il comunismo: a cui dicono di credere ancora, ma a modo loro, la maggior parte degli intervistati). Essere stati parte di questa storia collettiva e molto romana, in posizioni di responsabilità di partito o dando un contributo di idee e di militanza, è un’esperienza che chi l’ha attraversata ha giustamente voglia di raccontarla. Si tratta di persone più o meno famose, ormai anziane, ma che hanno tanto da dire e lo fanno. Santarelli, che dei giovani comunisti, del Pci, del Pdup, di nuovo del Pci e di vari frammenti della diaspora post-comunista a Roma è stato ed è uno protagonista e ha già raccontato la sua storia pochi ani fa in un altro bel libro (Rosso è il cammino), ha radunato, una per una, le testimonianze di Roberto Antonelli, Maria Luisa Boccia, Paolo Flors d’Arcais, Angelo Bolaffi, Silvia Calamandrei, Alessandro  De Toni, Anna Foa, Claudio Fracassi, Angelo Fredda, Augusto Illuminati, Pio Marconi, Alberto Olivetti, Vanni Pierini, Daniela Romiti, Franco Russo, Duccio Trombadori e altri e viene fuori un affresco di come i comunisti della Capitale si raccontano dal luglio ‘60 al crollo del Muro. Ma si descrivono anche per ciò che sono diventati oggi. «Sono comunista? Assolutamente, sì», dice per esempio Daniela Romiti che diventò comunista quando frequentava la seconda  media, in zona Tuscolana: «Continuo a volere un mondo giusto, fatto di eguali, senza discriminazioni, senza sfruttati e sfruttatoti. E’ un sogno irrealizzabile? Pazienza». Chi  di loro è finito in zona Autonomia Operaia, come Augusto Illuminati. Chi ha creduto nel mito giustizialista di Mani Pulite e chi lo ha avversato e considera lo strapotere dei giudici una stortura anti-democratica (come il giurista Pio Marconi che è stato tra gli intellettuali craxiani).

Chi come Vanni Pierini dopo gli anni figgicciotti sarebbe diventato dirigente sindacale. Chi, come Duccio Trombadori, ha assimilato il comunismo fin dalla culla e poi avrebbe avuto un percorso di riflessione lungo e profondo (per esempio sull’impostazione berlingueriana rispetto alla questione morale e alla questione socialista) e, anche da figlio di dirigente comunista famoso (suo padre era Antonello Trombadori) e da militante di Roma Prati (liceo Mamiani, aristocrazia rossa), spiega nella sua intervista quello che è un po’ il leit motiv di questo libro: «L’incontro con la Fgci fu occasione per incontrare giovani di altra condizione sociale. La Roma di cinquanta-sessant’anni fa era divisa a seconda delle zone: chi abitava in Prati conosceva a malapena che cosa fosse San Giovanni, per non dire Torpignattara che era come andare dall’altra parte del mondo». Ora è la stessa cosa, anzi peggio: perché non esiste la mescolanza della militanza e l’interclassismo del ritrovarsi nel medesimo impegno e del credere nella medesima utopia.

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La prefazione di Io c’ero è di Paolo Franchi, che è parte di questa storia - in cui ci sono tutte le illusioni e i disincanti, gli slanci e gli errori, le promesse realizzate e quelle sfumate  di 50 anni di storia in rosso della Capitale - e poi avrebbe fatto il giornalista diventando una firma del Corriere della sera. E descrive Franchi la vicenda di un partito, il Pci romano, «colto e popolare, a volte persino plebeo» in cui un ragazzo di Centocelle poteva parlare a tu per tu, «da compagno a compagno», con Aldo Natoli» e un ragazzo di piazza Mazzini, grazie alle organizzazioni comuniste, poteva sapere come è fatto un operaio o un bracciante: «I famosi uomini in carne e ossa di cui parlava Antonio Gramsci». Può sembrare poca cosa e invece è moltissimo. Così come è molto che ci sia un libro - questo curato da Pino Santarelli, il cui comunismo è stato picaresco e resta assolutamente libertario - capace di fare della memoria qualcosa di non stantio e in grado di parlare a chi è lontanissimo da tutto ciò ma sa bene quanto le esperienze degli altri siano piccoli granelli di sabbia utili, anche quando ad occhio sembrano archeologiche o autoreferenziali, prettamente novecentesche e perfettamente di parte, a costruire il castello del futuro.

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