E adesso tocca agli astronauti Sandra Bullock e George Clooney affrontare l’ignoto nella posizione peggiore di tutte. Sperduti nel cosmo, esiliati da una stazione spaziale in avaria, minacciati da una tempesta di detriti orbitanti che spazza via a intervalli regolari tutto ciò che incontra. E soprattutto sempre più soli. Tagliati fuori dalla loro navicella, poi dai contatti con la base sulla Terra («Houston, ho un brutto presentimento», scherza il veterano Clooney per tener su il morale della novellina Bullock), perché la radio tace, i cavi cedono e anche la danza spaziale dei due astronauti, che piroettando nel vuoto evocano le acrobazie del Cirque du Soleil, si spezza, si aggroviglia su se stessa, diventa caos, angoscia, ricerca impossibile di una forma. Ma come si fa a trovare una forma in un posto senza aria, senza peso, senza suono? Inutile girarci intorno: Gravity è uno di quei film, rari, capaci di suscitare una genuina e costante meraviglia. Siamo stati centinaia di volte nello spazio profondo.
Ma nessuno, nemmeno il citatissimo Kubrick, aveva mai usato con tanta libertà i corpi degli attori, i loro movimenti lenti e frenetici insieme, sposando il virtuosismo della regia (13 minuti ininterrotti di piano sequenza in apertura!) a quello delle loro performance. Una gara di bravura esaltata dagli effetti speciali non meno che dalla sceneggiatura (firmata da Cuaron col figlio Jonas), che fonde i registri più vari, dalla commedia al mélo esistenziale, senza perdere di vista il sottotesto filosofico né farsene sopraffare. Solo le musiche, chissà perché, sono di una banalità sconcertante. Il resto è grandissimo spettacolo. A quanto pare una lunga lista di attrici (Angelina Jolie, Natalie Portman, Marion Cotillard, Scarlett Johansson, Rachel Weisz...) ha rifiutato il ruolo andato alla Bullock. Succede, con le imprese molto innovative. Visto il film, si mangeranno le mani.
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