Francesco Grillo
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Piaga burocrazia/ La transizione più urgente è quella dal passato

di Francesco Grillo
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Lunedì 15 Febbraio 2021, 00:10

L’idea del coordinamento di tutte le attività relative alla trasformazione ecologica è quella più interessante che emerge dalla lettura della lista dei ministri proposta da Mario Draghi. Certo l’intuizione va riempita di contenuti formali e molto conterà l’iniziativa che Roberto Cingolani riuscirà ad esprimere, insieme a Vittorio Colao che si occuperà dell’altra transizione (quella digitale). 

E, tuttavia, può essere questa la dimostrazione che lo stesso presidente del Consiglio, abituato alla razionalità di chi muove tassi di interesse e masse monetarie, abbia la consapevolezza che il successo della sua nuova sfida dipende più da scelte organizzative che da modelli economici che non riescono più ad interpretare realtà complesse. 

La madre di tutte le riforme è quella dello Stato. È questa la modernizzazione da cui dipende – per intero – l’ultima possibilità di salvarci. Riforma di uno Stato concepito nell’Ottocento da Weber e che poco assomiglia a quello nel quale vivremo quando le due transizioni saranno compiute. 
L’idea di dover bucare le barriere che separano le amministrazioni centrali per integrare competenze diverse attorno agli stessi obiettivi fu, per la prima volta, perseguita da Tony Blair nel 1998 e ispirata dalla London School of Economics. Oggi, nell’agenda delle organizzazioni internazionali, la necessità di superare strutture organizzate per ambiti verticali è prioritaria.

E Lorenzo Fioramonti, nel libro “Un’economia per stare bene”, raccontando la sua esperienza da ministro dell’Istruzione identifica qual è l’ostacolo contro il quale si infrangono i migliori riformismi: uno qualsiasi dei problemi che definiscono la modernità – dal cambiamento climatico al contenimento delle epidemie, dal ridisegno delle città per ospitare automobili a guida autonoma alla prevenzione del terrorismo – necessita la collaborazione di più amministrazioni, di più uffici, delle imprese con le agenzie pubbliche e non funziona senza un forte coinvolgimento dei cittadini. 

Sono, dunque, due i motivi che portano a ritenere urgente una ristrutturazione del modo stesso di lavorare delle istituzioni: cognitivo, perché continuando ad affidarci solo sulla somma delle competenze degli esperti (come abbiamo fatto con la pandemia) continua a sfuggirci la natura dei problemi e, dunque, le possibili soluzioni; amministrativa, perché se per fornire un qualsiasi servizio abbiamo bisogno di cento adempimenti, il risultato finale si allineerà ai tempi del soggetto che evade il proprio con minore efficienza.

Il senso del nostro tempo è che Internet sta connettendo linguaggi e specializzazioni tra di loro diverse e sta rendendo le questioni irrisolvibili se diverse competenze non trovano un modo di lavorare insieme. La stessa incapacità di aprire le scuole è stato il risultato del mancato coordinamento di diverse componenti di una società intera che dovrebbe stringersi attorno alla sua parte più importante: dai trasporti agli orari degli uffici, dalla gestione di spazi non utilizzati al tempo di genitori che devono far parte del processo formativo. 

La transizione digitale ed ecologica sono esempi evidenti di politiche di trasformazione di un intero sistema economico e politico che non possono neppure cominciare se rischiano di essere fermate perché abbiamo perso un’autorizzazione lungo la strada.

Vanno concepite differenziandole per singolo territorio – le priorità verdi di Roma non sono quelle di Milano – e integrando le due trasformazioni tra di loro: dobbiamo usare una quota assai maggiore del potenziale che le tecnologie forniscono, ma per farlo dobbiamo garantire che esse siano funzionali al raggiungimento di un obiettivo che riguarda tutti (visto che come notò il maestro di Draghi, Robert Solow, non necessariamente i computer aumentano la produttività di un sistema).

La riforma dello Stato si pone rispetto al Recovery Plan in rapporto di reciproca necessità: da essa gli investimenti sono abilitati e, viceversa, quegli investimenti trovano senso in questa riforma. Giusta, dunque, l’idea di ripensare la struttura stessa del governo e, tuttavia, molta strada rimane da fare nei palazzi che i piemontesi ristrutturarono 150 anni fa a Roma. 

Rimarrà a Cingolani e a Colao la difficoltà di dialogare con direttori generali abituati a ragionare per deleghe rigide e con Ministeri che dalla “transizione” non sono formalmente interessati: intervenire sull’efficienza energetica di caserme e scuole continuerà a richiedere la collaborazione di altri dicasteri e di ottomila comuni. I momenti di coordinamento esistono ma essi sono chiamati “tavoli” ed il termine stesso fa plasticamente capire quanti spigoli ci sono da superare per arrivare al buon senso: l’obiettivo minimo dell’integrazione è la creazione di gruppi di lavoro permanenti che nulla ha a che fare con incontri di negoziazione affollati e inconcludenti. 
Entrambi, poi, dovranno difendere la propria agenda che non può che essere di creazione distruttiva (come per qualsiasi innovazione) da mille interessi di lobbisti del vecchio. E continueranno a mancare alle due transizioni quelle prospettive pluridisciplinari su cosa sta succedendo nel mondo (soprattutto in Asia), che nelle amministrazioni centrali non ci sono e che persino le università italiane frammentate in centinaia di aree disciplinari faticano ad offrire.

Infine, sarebbe assolutamente essenziale che il tentativo di concepire strategie di trasformazione trovi una qualche continuità: la durata media dei governi in Italia rappresenta uno dei nostri più grandi svantaggi (come racconta il grafico che accompagna questo articolo) e la preoccupazione di chiunque voglia avere fiducia nella possibilità che il Recovery Plan sia attuato.

Ma alla modernità non si può rispondere altrimenti. Le competenze specialistiche e le amministrazioni concepite dalla stessa Costituzione per garantire stabilità sono, ormai, insufficienti. In fondo entrambe le transizioni sono quelle che ci devono far entrare in un secolo che è già cominciato vent’anni fa mentre eravamo impegnati a gestire un mondo che non c’è più. 
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