Alessandro Campi
Alessandro Campi

Il caso Navalny/ La forza del patriota che va oltre la sua morte

di Alessandro Campi
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Lunedì 26 Febbraio 2024, 00:06
Il corpo vivo del capo (dittatore o leader democratico nell’era della politica simbolica di massa, ormai quasi non fa più molta differenza) si esibisce e si mette in mostra, è oggetto di una cura maniacale, suscita ammirazione e venerazione, è un aggregatore di consenso, uno strumento di potenza, un costante veicolo di propaganda. Al posto delle parole e delle idee, un’immagine o icona continuamente e variamente riprodotte a fini di seduzione collettiva.
Il corpo morto del nemico del capo o del capo assoluto caduto in disgrazia perché vittima dei suoi stessi soprusi segue invece un altro destino. L’oblio forzato, la cancellazione della memoria, la condanna senza appello, la rimozione dalla scena pubblica. Può essere oltraggiato, fatto sparire o nascosto in un luogo segreto. Oppure gli viene concessa una tumulazione frettolosa e priva di cerimonie. Con l’idea di impedire l’omaggio dei seguaci sul luogo di sepoltura, si finisce per sottrarlo anche alla carità dei famigliari. Se non se ne cancellano fisicamente le tracce, si cerca di offuscarne il ricordo e di svilirne la memoria.
Ma le cose, come mostra l’esperienza storica, in particolare quella drammatica e istruttiva del Novecento, non procedono sempre in modo così meccanico e scontato.
Il corpo vivente del capo, anche il più vigoroso, inevitabilmente si logora, va incontro alla decadenza, s’indebolisce fisiologicamente. 
È precario e soggetto all’usura del tempo come in fondo è precario e destinato a finire, spesso improvvisamente, anche il potere all’apparenza più grande e stabile.
Ai leader politici, per quanto forti e risoluti, basta un segnale di malattia, vecchiaia o stanchezza mentale per vedersi messi in discussione anche dagli esponenti della cerchia più intima: il tradimento e l’abbandono dei devoti sono l’altra faccia, sempre nel segno di un’ambizione personale coltivata alle spalle del capo, della fedeltà e dell’obbedienza cieca. Naturalmente, c’è anche chi resiste al comando sino alla fine, naturale o tragica, dei propri giorni, ma non è un caso che il declino dei potenti abbia sempre un che di patetico, meschino e disonorevole. In politica, le uscite di scena involontarie o forzate non sono mai gloriose.
Del pari, un corpo politico senza vita, anche se si è cercato in tutti i modi di renderlo inoffensivo, occultandolo o impedendo qualunque forma di tributo pubblico nei suoi confronti, può dimostrare, alla prova del tempo, una vitalità postuma straordinaria. Trasformarsi cioè in un riferimento simbolico in grado di suscitare grandi passioni, spesso nobili e generose, non necessariamente edificanti e positive.
Da sempre, infatti, gli umori collettivi sono cangianti e incontrollabili, così come sono imprevedibili le contingenze della storia. Ciò significa che il nemico dello Stato di oggi, presentato come un eversore o una minaccia alla sicurezza, può facilmente trasformarsi nel combattente per la libertà di domani. Spesso è solo questione di tempo, di punti di vista e di valori che cambiano. Non basta dunque eliminare con la violenza un dissidente o un nemico politico del regime, sino all’estremo del vilipendio o dell’occultamento del suo cadavere, per impedire che al suo nome vengano un giorno tributati gli onori riservati ai patrioti e ai martiri di una giusta causa.
Il lungo Risorgimento italiano – dai fratelli Bandiera a Nazario Sauro – è pieno di simili storie: militanti di una causa, nel loro caso quella dell’unità e dell’indipendenza nazionale, i cui corpi, dopo l‘uccisione decretata dal potere assoluto del momento o semplicemente dalla violenza spesso cieca degli uomini, sono stati gettati in fosse comuni o sepolti in forma anonima, per poi essere dissepolti, riconsacrati politicamente e fatti oggetto di esequie solenni e memoria imperitura una volta cambiate le circostanze storiche e stravolti i precedenti equilibri politici.
In generale, è il cammino verso la democrazia e la libertà che si accompagna a simili traiettorie biografiche: il fallimento sino al sacrificio personale nella vita terrena, la vittoria postuma delle idee per cui ci si è battuti.
Beninteso, c’è il risvolto della medaglia. Anche le spoglie mortali dei nemici della libertà, per quanto se ne possa vietare il culto o condannare il lascito, possono rivelarsi pervicacemente vitali e morbosamente attrattive. Non basta nemmeno aver messo al muro un dittatore per saldare, una volta per sempre, il suo debito con la storia: si troverà infatti sempre qualcuno disposto a difenderne nostalgicamente la memoria e a minimizzarne colpe e responsabilità a dispetto dell’evidenza dei fatti. Noi italiani ne sappiamo qualcosa: non sono bastati settant’anni di repubblica e democrazia per consegnare al passato il fantasma di Mussolini. Tra cultori ideologicamente attardati a destra ed evocatori interessati a richiamarlo in vita per ragioni di bottega politica a sinistra, la buonanima è ancora tra noi.
Corpi vivi ma non sempre storicamente vincenti. Corpi morti ma politicamente attivi. La storia tra le sue leggi inesorabili spesso inserisce risvolti ironici e paradossali. Tutto ciò serve a chiedersi, venendo alla cronaca di questi giorni, quale potrà essere – tra due o forse venti anni – il giudizio dei russi su Vladimir Putin, un despota in abiti democratici oggi tronfio e all’apparenza senza rivali, e Aleksej Navalny, un oppositore politico lasciato morire in carcere al quale, dopo averne restituito controvoglia il corpo alla madre, i suoi aguzzini vorrebbero anche negare la dignità di un funerale pubblico temendo che possa trasformarsi in una manifestazione di dissenso. Chi tra i due vincerà alla fine?
Al momento, l’immagine corporale del primo, continuamente esibita, presente nella sfera pubblica russa in una forma quasi ossessiva, sembra esprimere la quintessenza di un sistema di potere convinto, tanto è forte nel suo mix di nazionalismo bellicista e difesa oltranzista della tradizione religiosa ortodossa, di potersi permettere tutto: dall’aggressione armata a un paese confinante all’eliminazione, con la violenza o la persuasione fondata sulla paura, di qualunque forma di opposizione sociale e politica.
Di converso, il corpo inanime e forzatamente invisibile del secondo, morto in circostanze che ci si vergogna di ammettere e di indagare, sembrerebbe invece la prova che nella Russia odierna libertà e democrazia, pluralismo e diritto al dissenso, sono parole nobili ma inefficaci, speranze destinate ad alimentare i sogni di una minoranza indomita ma fatalmente impaurita e chissà per quanto destinata allo scacco. Il cadavere ancora caldo di Navalny è, in una logica di miope realismo, un duro monito per tutti i potenziali avversari del putinismo.
Ma proprio il cinico accanimento burocratico con cui si sta trattando un oppositore che non può più né parlare né agire dimostra che un corpo senza vita può anche essere politicamente assai loquace ed espressivo. Navalny può anche togliere il sonno al potere che gli ha tolto la vita. Può fare paura a chi ne ha decretato la morte più di quando era in vita. Non avrà probabilmente una cerimonia d’addio aperta ai suoi sostenitori, le ragioni del suo decesso resteranno per sempre un mistero, il suo nome in patria è al momento pubblicamente impronunciabile, ma la ruota della storia gira con modalità impreviste e spesso con incredibile velocità.
Azzardiamo una facile previsione: tra due o venti anni, il tempo passa in fretta, Navalny sarà per il suo popolo un eroe da omaggiare nel pantheon nazionale, mentre la memoria di Putin, l’uomo del quale si dirà che per realizzare le sue ambizioni di gloria ha rischiato di mettere a fuoco il mondo e di trasformare definitivamente la Russia in un’appendice asiatica dell’Europa, sarà custodita solo da un pugno di irriducibili fanatici.
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