Alessandro Campi
Alessandro Campi

Fenomenologia Renzi/ Il progressista illuminato tradito dal suo carattere

di Alessandro Campi
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Mercoledì 20 Gennaio 2021, 00:10

La personalizzazione della politica, tendenza irreversibile del nostro tempo, significa tante cose. Che i leader contano più dei partiti. Che le parole dei leader talvolta contano più dei loro comportamenti. E che questi ultimi spesso si spiegano guardando non solo alla ideologia che li sostiene, ammesso che esista ancora, ma anche alla psicologia che li determina. Quella di Matteo Renzi, il cattivo per eccellenza di queste giornate convulse, è decisamente complessa, dal momento che a formarla – spiega chi lo conosce bene – concorre una variabile antropologico-territoriale molto specifica, il cosiddetto fiorentinismo, che a sua volta è una cosa difficile da intendere. Si tratterebbe, per semplificare, di un misto di protervia umorale, supponenza municipalistica e spregiudicatezza tardo, o pseudo-machiavelliana, che unito ad un carattere fisiologicamente incline alla frenesia e al protagonismo avrebbe appunto prodotto il “matteorenzismo”.

In questi giorni, sul conto del fondatore di Italia Viva si è letto di tutto, proprio nel solco di una psico-politica a tratti grossolana. Già lo si accusava, alla luce della sua precedente parabola (da capo del governo e leader del Pd a padre-padrone di un partitino che stenta a decollare nei consensi), di essere, non solo un parlatore senza freni, pieno di sé e accentratore, ma anche un fautore del cambiamento fine a se stesso, un modernizzatore per finta, non a caso affermatosi sulla scena pubblica nazionale grazie alla sua martellante ma vuota retorica sulla rottamazione.

Parliamo della stagione in cui Renzi fu, per parecchi milioni di italiani e per la gran parte di quegli stessi osservatori che oggi lo scudisciano senza pietà, una novità salutare, mentre il berlusconismo declinava e con esso quella sinistra vissuta per un ventennio di antiberlusconismo viscerale. Apparve all’epoca come un riformista capace di cambiare dall’interno il mondo progressista e quel pachiderma del Pd. Un giovane volitivo e determinato, anche se certamente rude, in un Paese a vocazione gerontocratica, tendente all’immobilismo e alla difesa sino alla tomba dei privilegi acquisiti. Un innovatore vero – dall’economia all’architettura istituzionale. Tale anche sul piano del linguaggio e della comunicazione: battente, diretta, personalizzata, a misura della nuova cultura digitale, anche se talvolta troppo autocentrata.

Ma ben presto si rivelò esserci un rovescio della medaglia: gli eccessi di spregiudicatezza nei rapporti politici e umani (condensati nel tormentone «Enrico, stai sereno!»); il venir meno alla parola data con troppa disinvoltura (ne fece le spese Giuliano Amato nella sua corsa per il Quirinale); la corte dei fedelissimi troppo invadenti; la pretesa crescente di aver sempre ragione e di voler parlare al popolo saltando ogni mediazione istituzionale o associativa; le riforme costituzionali trasformate in un’ordalia sulla sua persona; un modo di leggere le dinamiche sociali tendente al semplicismo, come certe sue ricette economiche; l’abitudine a trasformare i contrasti politici in rancori personali.

La simpatia e la curiosità iniziali si trasformarono in antipatia generalizzata. La veloce ascesa fu seguita da un declino ancora più rapido, sino a generare la convinzione – consumatosi nel frattempo il divorzio finale dal Pd – che la sua carriera politica fosse terminata e che egli non avesse mai fatto nulla che meritava di essere ricordato. 

Da allora in poi a Matteo Renzi non si è concesso e perdonato nulla.

E ogni sua scelta politica (da quelle passate talvolta coraggiose, tipo aver traghettato il Pd nel socialismo europeo, sino all’ultima in effetti controversa di rompere con il governo Conte) è stata ricondotta al suo pessimo carattere. E dunque dagli all’egocentrico, al distruttore sistematico di ogni alleanza, al bilioso, al berlusconiano inconsapevole, per finire con l’accusa pittoresca e ricorrente di essere, per formazione e indole, poco più di un bulletto di provincia. 

Ma la psicologia applicata alla politica spiega molto, non tutto. Dare dell’ambizioso a chiunque gestisca un qualche potere è poco più di un truismo. Pretendere da costui comportamenti sempre cristallini o una coerenza assoluta è moralismo. Rimproverargli il circondarsi di collaboratori fedeli prima che capaci è un’ingenua ipocrisia. Al dunque tutte cose che lasciano il tempo che trovano. Laddove la critica più corrosiva che si possa fare ad un uomo politico non è che abbia desideri inconfessati o che sia un umorale, ma che non sia chiaro cosa politicamente vuole e come politicamente opera. Ovvero che avendo avuto un qualche disegno politico lo abbia disatteso o mancato: per aver sopravvalutato sé stesso o sottovalutato gli altri, per aver sbagliato gli strumenti o scelto i compagni di strada sbagliati, per aver calcolato male tempi e modi.

Il progetto originario di Renzi aveva, anche se oggi si tende a farlo passare per un avventuriero senza idee, una sua grandiosità e una sua coerenza: creare una sinistra liberale e nazionale, riavviare l’ascensore sociale, innovare le istituzioni repubblicane, inglobare il centro berlusconiano, liberalizzare l’economia, sburocratizzare lo Stato, conciliare merito individuale ed eguaglianza sociale. Ma si è arenato senza che né Renzi né i suoi critici abbiano mai offerto una spiegazione politicamente plausibile per questo fallimento, imputabile probabilmente più che ai suoi errori comportamentali alla resistenza al cambiamento di pezzi importanti della società, della cultura e delle istituzioni italiane. Resistenza miope, visto che dopo di lui si sono aperte le cataratte dell’antipolitica e del dilettantismo elevato a virtù civica. 

Oggi, con un Renzi assai ridimensionato e in cerca di un nuovo ruolo per sé, non esiste più alcun grande progetto a cui egli possa ambire. Ma ciò non significa che le sue mosse contro il governo siano state incomprensibili e irresponsabili, dettate solo da avventurismo o da spirito di vendetta personale, come in molti gli hanno polemicamente imputato. Un politico, malumori personali a parte, vince o perde sempre per ragioni politiche. Renzi, ritirando la sua delegazione dal governo non senza buoni argomenti, portando allo scoperto un malessere che nella maggioranza covava da mesi, ha operato un azzardo oggettivo e scommesso sull’apertura di una nuova fase della vita pubblica italiana, lasciandosi aperte diverse strade: da un nuovo patto di maggioranza a un esecutivo istituzionale. Ieri è (ri)nato un governo di minoranza, fatalmente debole, ma ciò significa che nei prossimi giorni molte cose, al momento non previste né prevedibili, potrebbero accadere. E a quel punto si dovrà forse ammettere, se i fatti nel frattempo avranno dato ragione alla sua scommessa, che Renzi avrà pure un brutto carattere, ma è pur sempre uno che ancora ragiona per categorie politiche a costo di sbagliare nuovamente.

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