Alessandro Campi
Alessandro Campi

I rischi alle urne/ Quei litigi della destra che frenano la coalizione

di Alessandro Campi
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Martedì 26 Luglio 2022, 00:07

La repentina caduta di Draghi non ha dato tempo ai partiti di prepararsi per la campagna elettorale. Si vota il 25 settembre, si sta facendo propaganda mentre gli italiani sono al mare. Non potendo inventarsi nulla di particolarmente originale, si prova ad andare sul sicuro brandendo vecchie bandiere e utilizzando slogan preconfezionati.
E visto che i sondaggi dicono che vincerà il centrodestra, all’interno del quale gli stessi sondaggi dicono che vincerà la Meloni, niente di più facile che sparare a zero su quest’ultima evocando lo spettro, cent’anni dopo, di una nuova marcia su Roma. Non è vero che l’Italia è immobile: cammina, ma all’indietro.
Si dice che quando non si hanno idee chiare sul futuro, conviene aggrapparsi a quelle avute in eredità dal passato. E’ un modo per trovare certezze in tempi di smarrimento. Sarà, ma l’idea che si debba votare nel 2022 come se fossimo nel 1924 non è né rassicurante né divertente. Peraltro, essendo appena partita la campagna elettorale l’impressione è che siano state già sparate, per eccesso di zelo militante, tutte le cartucce. Se già siamo all’evocazione delle leggi razziali, che ci si inventerà a metà agosto per tenere alta l’attenzione degli elettori? I fantasmi all’inizio fanno paura, ma a furia d’invocarli non impressionano più nessuno.
L’effetto di quel che in questi giorni si sente e si legge è davvero straniante: appena ieri parlavamo di un domani fatto di energia pulita, di grandi opere finanziate coi soldi del Pnrr, di transizione digitale, di come contrastare le molte emergenze sociali e lavorativi che affliggono gli italiani, ci troviamo a discutere di Mussolini e dei suoi eredi che rischiano di tornare nuovamente al potere. E’ la storia che tragicamente potrebbe ripetersi, secondo alcuni. Ma forse è la politica italiana che, venuta meno la pax draghiana garantita dal governo di unità nazionale, è tornata a fare l’unica cosa che sa fare: battere l’avversario non sul piano delle idee, ma attraverso l’arma della delegittimazione.
Colpisce, oltre questo eterno ritorno dell’eguale, come cambiano anche il costume e il linguaggio a seconda delle occasioni e delle convenienze. Nemmeno un anno fa, in vista della corsa per il Colle, tutti facevano la fila per partecipare alla festa “Atreju” di Fratelli d’Italia. Enrico Letta, che oggi parla della Meloni come di un pericolo per l’Italia, l’Europa e il mondo, ne parlava in quei giorni come di una politica meritevole d’apprezzamento, con la quale ci si poteva intendere nel nome dei valori repubblicani. Allora era meno fascio-sovranista di oggi?
Salivano in quei giorni sul palco romano gli stessi, esponenti di tutti i partiti democratici, che oggi brandiscono il “New York Times” come prova che il fascismo è nuovamente alle porte. Ha cambiato nome, sovranismo, ma è sempre quella cosa là. M come Meloni, M come Mussolini, ha fatto notare qualcuno con straordinaria perspicacia. Se è per questo ci sarebbe anche M come Mattarella, se il problema è giocare con le iniziali tanto per divertirsi.
In realtà si cercano segnali lugubri per trarne scenari di sventura ai quali nessuno crede, ma hai visto mai che possano funzionare per galvanizzare le truppe e per strappare qualche voto nelle urne? Se il fronte repubblicano contro la Le Pen ha funzionato in Francia perché qualcosa di simile non dovrebbe funzionare in Italia. Viene facile rispondere che oltre confine a guidare la crociata era un uomo solo, Macron, nel corso di una battaglia presidenziale, qui da noi rischia di essere un’armata variopinta e non sempre credibile a giudicare da alcuni suoi esponenti: più interessati a tornare in Parlamento che a salvare la democrazia.
Ma il tiro alla Meloni, questa la cosa interessante, non è solo lo sport preferito dai suoi avversari, che in fondo fanno, anche se senza molta fantasia, il loro mestiere. Ovvero l’obiettivo polemico scelto da alcuni influencer digitali con l’idea di accreditarsi come figure pubbliche politicamente impegnate. Più pericoloso e infido rischia di essere il fuoco amico. Anch’esso, in forme subdole, irregolari e allusive, piuttosto attivo in questi giorni.
La Meloni a Palazzo Chigi, mettiamola così, non la vogliono - anche se non possono dirlo apertamente - né Berlusconi né Salvini. I suoi alleati. E dunque indebolirla, sul piano dell’immagine ora, sul piano elettorale tra qualche settimana, è per loro un obiettivo da perseguire con costanza ma evitando di dare troppo nell’occhio. Il Cavaliere punta sulla carta del moderatismo e del suo antico accreditamento internazionale. Lui rappresenta in Italia il Partito popolare europeo. E l’Europa potrebbe tirare un sospiro di sollievo se, in caso di vittoria del centrodestra, alla guida del governo ci fosse un uomo di Forza Italia (tipo Antonio Tajani). Salvini, dal canto suo, punta anch’egli a prendersi la guida del governo con una figura che sia, al tempo stesso, sufficientemente vicina alla Lega e abbastanza gradita a Berlusconi: il nome di Giulio Tremonti sembra perfetto.
Insomma, ridimensionare la Meloni, non muovere un dito in sua difesa quando da sinistra la si attacca, con l’idea di riequilibrare strada facendo i rapporti interni alla coalizione: i sondaggi sono una cosa, i voti reali saranno una cosa diversa. Un ragionamento non privo di cinismo, che tiene poco in conto quel che decideranno gli stessi elettori di centrodestra, ma soprattutto non privo di pericoli.
Il primo. Le accuse di fascismo alla Meloni sono in realtà rivolte all’intero centrodestra. Chi vede nella leader di Fratelli d’Italia un pericolo per l’Europa e un’impresentabile a livello internazionale, in realtà pensa la stessa cosa del capo della Lega e del padre-padrone di Forza Italia. Il problema riguarda soprattutto quest’ultimo: si illude di essere considerato un liberale e un moderato, in realtà gli avversari lo considerano, non da oggi, colpevole d’aver creato proprio lui questo sorta di mostro politico che si chiama appunto centrodestra. Il Principe delle Tenebre del populismo italico è lui. Matteo e Giorgia sono solo diavoletti suoi allievi. Non s’illuda d’essere considerato un padre della patria.
Il secondo. A furia di perdere tempo in manovre e giochetti, a furia di farsi dispetti e sgambetti tra capi, il centrodestra, convinto di aver già vinto, potrebbe anche scoprire il giorno dopo la chiusura delle urne di aver perso. Le divisioni interne, è una vecchia regola, favoriscono sempre gli avversari. In questo momento si sta creando uno schieramento elettorale in senso lato di sinistra, imperniato intorno al Pd, che proverà a rafforzarsi imbarcando non pochi nomi di prestigio provenienti dal centro e anche dalla destra: dagli ex-ministri Gelmini e Brunetta a Letizia Moratti. Funzionerà? Con una legislatura nel segno del peggior trasformismo appena malamente finita, questi ennesimi cambi di casacca potrebbero non piacere granché agli elettori. Con un Parlamento con meno seggi sarà inoltre divertente vedere chi farà il sacrificio di rinunciare ad un posto sicuro per cederlo a chi per anni ha professato un berlusconismo a dir poco ortodosso.
Ma proprio per questo, con un avversario che per provare a vincere dovrà imbarcare tutti o quasi e che parte, sondaggi alla mano, in salita il rischio di farsi le scarpe da soli, come coalizione, nel tentativo di fare le scarpe alla Meloni, nel centrodestra è molto alto. Sarebbe un atto di autolesionismo degno di finire sui testi di politologia. La furbizia spesso è nemica dell’intelligenza e della convenienza.
Tutto ciò detto, una sola consolazione: il 26 settembre tutto sarà dimenticato.

La minaccia del fascismo come è venuta se ne andrà. E si potrà andare al bar a prendere un caffè con Giorgia Meloni, quale che sarà il suo ruolo dopo il voto, senza alcuna paura di beccarsi una manganellata. La politica italiana è fatta così: prima ci si insulta a morte, poi amici come prima. Sarà anche per questo che molti italiani non votano più?

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