Chi ha la fortuna e il privilegio di lavorare ogni giorno con i più giovani, specialmente nell’ambiente universitario, percepisce spesso un sentimento di irrequietezza e tensione tra i ragazzi che li porta a considerare il trasferimento all’estero come un’opzione sempre più probabile. Si moltiplicano anche in Italia i corsi di laurea in inglese; tuttavia, la maggior parte degli iscritti non è affatto straniera: sono invece italiani che vogliono attrezzarsi per competere su un mercato del lavoro internazionale. I dati dell’Istat certificano ciò che molti di noi osservano: ogni anno lasciano il nostro paese migliaia di persone, sempre più spesso laureate. E quando se ne chiede il motivo, la risposta più gettonata è la seguente: assenza di meritocrazia.
L’evidenza scientifica di questi risultati e la loro persistenza nel tempo suggeriscono, o dovrebbero perlomeno farlo, che il tema venga discusso pubblicamente. Il che purtroppo capita poche volte. E, in aggiunta, in quelle poche volte i sentimenti e le opinioni sono contrastanti e dipendono, principalmente, da quale fazione politica brandisce per prima la parola. Il che è stupefacente. Siamo probabilmente tutti d’accordo che per togliere valore a un qualunque risultato, si tratti di un voto, di un risultato sportivo, di una promozione, o, per rimanere nella stretta attualità, della vittoria al Festival di Sanremo, sia sufficiente definirlo “immeritato”. Sottintendendo quindi che il merito non solo giustifichi ciò che si ottiene ma lo renda anche eticamente corretto.
L’argomento resta però diviso e non aiutano a sbrogliare la matassa né le polemiche “merito-fobiche” contro chi sostiene la necessità di promuovere il merito nella società né, dall’altra parte, la retorica “merito-ipocrita” che si accontenta di sbandierare termini e principi senza mai provare a cambiare davvero le cose. Fa quindi bene il Forum per la meritocrazia a riproporre ogni anno, e ormai da nove, l’aggiornamento del cosiddetto “meritometro”, un indice sviluppato dallo stesso Forum in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (e ivi presentato poche settimane fa).
Le notizie non sono incoraggianti, per usare un eufemismo.
Unica e piccola buona notizia, un miglioramento rispetto al passato, che però non permette al nostro paese di risalire alcuna posizione in classifica.
Il risultato conferma la percezione delle persone. E non può essere ignorato, soprattutto da chi ha responsabilità di governo. Ma, ovviamente, si tratta di un indicatore aggregato e sintetico, che nulla racconta delle esperienze personali e delle dinamiche di singoli casi specifici. Ed è chiaro che la riflessione accademica e politica non può fermarsi a questo numero. Quando si pagano le imposte, è considerato piuttosto ovvio che a redditi uguali corrispondano obbligazioni identiche solo le condizioni personali e famigliari sono davvero tali; altrimenti, si tiene conto delle differenze, magari con opportune detrazioni. Analogamente per il merito: raggiungere un risultato non può essere l’unico criterio da utilizzare per valutare un individuo; vanno considerate anche le condizioni di partenza di ognuno, la famiglia di provenienza, l’area geografica di residenza, le scuole frequentate, e così via. Comunque la si ponga, è un dibattito che ha bisogno di numeri e misure, che già ci sono, di una riflessione etica e, infine, di azione politica. Perché è una questione di giustizia sociale, innanzitutto. E perché i nostri figli non si sentano costretti ad acquistare biglietti aerei di sola andata.