Giulio Sapelli

Interferenze politiche/ L’inchiesta sul credito e i danni da evitare

di Giulio Sapelli
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Domenica 31 Marzo 2019, 00:15
La storica Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria e sui mezzi per combatterla svolse i suoi lavori dal 1951 al 1954 e contava tra i suoi firmatari personalità come Vigorelli, Saragat, Cornia, Tremelloni e altri illustri parlamentari. Le sue conclusioni sono ancora oggi esemplari per una profondità analitica che ricorda l’inchiesta di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti sul Mezzogiorno di circa un secolo prima, un’inchiesta, quella, che ha segnato la grande stagione dell’Italia liberale tardo ottocentesca.

Erano quelli esempi di una buona politica che illumina la realtà e sa trasformare la conoscenza in strumento di intervento pubblico e privato per riformare l’esistente. Senza la Commissione sulla miseria non avremmo potuto pensare alle realizzazioni della politica abitativa fanfaniana e alla riforma agraria che, con tutti i suoi limiti, trasformò radicalmente il volto dell’Italia e la inserì nel grande moto di cambiamento del secondo dopoguerra, culminato nel miracolo economico e nella nascita dell’economia mista. Nulla di tutto ciò è poi accaduto negli anni a seguire allorché, decennio dopo decennio, si susseguirono le altre Commissioni parlamentari d’inchiesta.

Da quella sulla tragedia del Vajont a quella sull’assassinio di Aldo Moro; per non parlare delle molteplici commissioni d’inchiesta sulla mafia. Le relazioni di maggioranza e di minoranza non si contano, tante sono, e ben poco se ne è poi tratto, tanto sul piano della verità storica quanto su quello dei propositi riformatori.  Solo la buona politica, però, può condurre il Parlamento attraverso i lidi perigliosi delle analisi storiche da cui si vogliono trarre provvedimenti politici. È questo il caso della nuova Commissione parlamentare d’inchiesta che è voluta sulla questione bancaria in Italia? Da quella che si ha appena concluso i suoi lavori alla fine della scorsa legislatura, non ne abbiamo tratto che polemiche, con il rischio di veder consegnate le banche nelle mani di storici, di benevolenti avvocati e di severi giudici. 

Le banche, in verità, una volta espressasi la volontà politica ordinamentale, debbono essere lasciate ai loro consigli di amministrazione e ai regolatori nazionali, sub specie le banche centrali e sovranazionali, sub specie la Banca centrale europea.

È solo la dialettica tra statualità e regolazione, tra principio politico della rappresentanza parlamentare e amministrazione quotidiana tecnica e manageriale, che deve giocarsi la partita. Tanto più nel contesto italiano, che ha di recente visto i censori della Commissione Europea essere redarguiti dalla Corte Europea di Giustizia, che ha dato ragione agli inascoltati giudizi sia di Banca d’Italia sia di molti critici osservatori (come il sottoscritto) in merito ai cosiddetti aiuti di Stato alle banche in difficoltà e altre amenità regalateci da un concerto europeo non di diritto, ma giurisprudenziale. 

Occorre, invece, seguire un’altra strada per riformare le banche. È semplice: tornare al credito cooperativo e popolare e non distruggerlo o mortificarlo, come si è fatto in passato; intensificare la buona governance a partire dai consigli di amministrazione e dagli indipendent directors; rafforzare il ruolo dei soci e degli azionisti nelle assemblee societarie cooperative e capitalistiche. Rispettare l’autonomia (tutt’altra cosa rispetto alla più roboante indipendenza) dei corpi intermedi come la Banca d’Italia e i suoi dirigenti. È ciò che auspicano il Presidente della Repubblica e tutti coloro che hanno a cuore l’Italia.
 
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