Alessandro Orsini

Oltre la rivolta/ L’effetto Hong Kong nella sfida Cina-Usa

di Alessandro Orsini
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Martedì 19 Novembre 2019, 01:09
Hong Kong è in rivolta. I manifestanti hanno avanzato alcune richieste che, se accolte, porrebbero fine al dominio che la Cina è riuscita a riconquistare nel 1997, dopo oltre 150 anni di dominio britannico. È infatti con la forza che Londra aveva strappato Hong Kong alla Cina, nel 1842, ed è con la forza che la Cina è pronta a trattenerla. Tanto più che la Cina, divenuta più ricca e potente, è impegnata ad acquisire una quota sempre maggiore di potere mondiale.
I manifestanti chiedono elezioni libere e dirette del capo dell’esecutivo e di tutti i rappresentati popolari. Il che equivale a chiedere la nascita di un sistema politico sottratto al controllo di Pechino. Libere elezioni significa infatti libertà di eleggere persino un leader anti-cinese e magari filo-americano: è una sfida alla sovranità nazionale della Cina. 
I trattati prevedono che gli abitanti di Hong Kong abbiano libertà e diritti, di cui sono privi i cinesi: libertà di stampa, di parola e diritto di protestare. I disordini sono iniziati a marzo 2019 e si sono poi intensificati a giugno, contro una proposta di legge che darebbe maggiori poteri alla Cina per estradare gli abitanti di Hong Kong, i quali verrebbero così processati in base alle leggi autoritarie della Cina e non a quelle liberali radicatesi durante il dominio di Londra.
]In sintesi, lo scontro è tra Pechino, che vorrebbe assorbire Hong Kong all’interno del proprio sistema, e i manifestanti, che vorrebbero tenersene il più lontano possibile. 
Il presidente della Cina, almeno finora, ha scelto una linea moderata perché teme che una dura repressione creerebbe una situazione più esplosiva e quindi più difficile da controllare. Inoltre, Xi Jinping teme che una repressione, paragonabile a quella di Piazza Tienanmen, possa spingere l’Occidente a introdurre severe sanzioni che avvantaggerebbero Trump, finora criticato dall’Europa per la sua guerra commerciale.
Il fine del presidente americano è infatti quello di danneggiare l’economia cinese affinché Pechino freni la sua corsa agli armamenti. Maggiore è la crescita economica della Cina, maggiori sono i suoi investimenti nell’esercito. La Cina – secondo la tipica dinamica della potenza ascendente che sfida la potenza dominante – ambisce a risospingere gli Stati Uniti verso Occidente, per instaurare il proprio dominio sull’Asia. A Trump sembra che i modi per fermarla siano soltanto due: o la Cina rallenta la propria crescita economica, e quindi riduce gli investimenti nella difesa, oppure la guerra, per conservare il dominio americano. Xi Jinping è consapevole di ciò e, infatti, le accuse che ha rivolto contro gli Stati Uniti sono severe e inequivocabili. 
In un discorso tenuto a settembre, ha affermato che, dietro le rivolte di Hong Kong, ci sarebbe l’Occidente e, più in particolare, gli Stati Uniti. Le parole di Xi Jinping sono talmente importanti da meritare una traduzione letterale: «Alcune forze anti-cinesi radicali negli Stati Uniti – ha detto – stanno cercando di trasformare Hong Kong in un campo di battaglia nella rivalità tra Usa e Cina. Esse vogliono trasformare l’autonomia di Hong Kong in indipendenza, con l’obiettivo finale di contenere l’ascesa della Cina e prevenire il ritorno di una grande nazione cinese».
Il 24 ottobre 2019, Mike Pence, vice presidente americano, non ha certamente placato i timori cinesi: Pence ha criticato la compagnia Nike per essere vicina al partito comunista cinese contro i manifestanti democratici, in un discorso pubblico al Wilson Center. 
Tutto questo non deve però trarre in inganno. Trump è molto realista e poco idealista. In questa fase sta cercando di chiudere un accordo commerciale con la Cina per il quale sarebbe disposto ad abbandonare i contestatori di Hong Kong al proprio destino, come ha già abbandonato i curdi. Se i manifestanti radicalizzassero le loro proteste, convinti di ottenere la protezione della Casa Bianca in caso di una violenta repressione, sbaglierebbero. Sembra che stiano commettendo proprio questo errore. 
Mentre scriviamo, i manifestanti, che hanno occupato il politecnico dell’università di Hong Kong, hanno preso a lanciare bombe incendiarie contro la polizia. Carrie Lam, che guida l’esecutivo di Hong Kong, condanna le violenze dei manifestanti, i quali chiedono le sue dimissioni. Xi le ha appena ribadito il suo sostegno, in un incontro a Shangai. Per il momento, non si intravedono vie d’uscita alla crisi.
aorsini@luiss.it
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