L’Europa e la Grecia/ Il pentimento tardivo dei signori dell’austerity

di Giulio Sapelli
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Mercoledì 16 Gennaio 2019, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 18:39
Aristotele, nella sua Poetica, definisce la tragedia greca come «l’imitazione di un’azione seria e conclusa, dotata di grandezza»; una imitazione che, «attraverso compassione e paura» conduce in definitiva alla catarsi, ossia al superamento delle passioni medesime. 

È a questa definizione che ho pensato quando di recente ho letto il discorso della cancelliera Angela Merkel e, ieri, quello del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, sulle vicende greche. Discorsi dai toni diversi ma sempre armonicamente sulla stessa tonalità. Sicché ci si era sbagliati a essere così fanaticamente rigidi nel fare pagare alla Grecia tutti i costi dell’austerità tecnocratica. Essa l’ha di fatto dissanguata lasciandola spoglia e impoverita delle sue risorse più preziose, svendute a prezzi di saldo alle potenze creditrici che non si sono fatte remore di far la parte dell’acquirente non benevolo, dell’acquirente minaccioso che, mentre fissa le regole, fa sì che esse siano le più favorevoli al dominatore. 

Bene, alla buon’ora, potremmo dire, finalmente l’hanno riconosciuto anche loro. E ci si potrebbe esaltare nell’aver avuto ragione (chi scrive e soprattutto questo quotidiano), ci si potrebbe compiacere per aver detto il contrario del pensiero dominante, in tempi difficili, quando tutti esaltavano l’ordo-liberismo e una politica tanto sbagliata teoricamente quanto dannosa praticamente.

Ci si potrebbe compiacere per aver detto le stesse parole che di fatto i due citati protagonisti della vita europea oggi con voce contrita pronunciano. Ma il problema non è questo: il narcisismo non conduce a nulla.
Non vogliamo pensare che questo ammettere di aver sbagliato sia l’effetto delle prossime prove elettorali che si svolgeranno simultaneamente in tutte le nazioni europee per eleggere quel nuovo parlamento europeo che si presenterà, dopo il voto, probabilmente diverso rispetto all’attuale. Un Parlamento che non ha e che non avrà, di fatto, potere alcuno se non di interdizione, rispetto ai governi che nominano i Commissari, in una sorta di rappresentanza in seconda istanza, e alla tecnocrazia invisibile ma potentissima, che emana direttive l’una sull’altra costruite in un segreto formarsi di un potere così lontano dai popoli da far dimenticare della sua stessa esistenza. Ed è probabilmente ciò che si vuole. Come avrebbe detto Gianfranco Miglio, gli «arcana imperii» ci dominano, come s’intitolava una sua indimenticabile collana su cui le menti meno conformiste si sono formate a una scienza della politica ormai dimenticata, nel dilagare della superficialità e della sguaiata chiassata conformista, tanto fastidiosa quanto l’altrettanto chiassosa protesta demagogica che non comprende che rinegoziare le regole vuol dire anzitutto conoscerle, dominarle, trasformarle attraverso un lavorio paziente e continuo. E’ la pazienza la vera virtù dei rivoluzionari e la tragedia europea non finisce mai di insegnarci questa sempiterna verità.

Certo la tragedia si è compiuta, ma la catarsi deve ancora prodursi. È tuttavia importante che nuove scene e nuovi attori appaiano sul palcoscenico europeo. Dalla lamentazione occorre ora passare alla riformulazione delle politiche economiche che quella tragedia hanno prodotto. Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera.
Un gelo che coglie anche governi come quello italiano che sembrano ora ritrovare il coraggio della rinegoziazione delle regole europee per non essere anch’essi trascinati, come l’Italia tutta, giù per le valli ripide della recessione. Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private. Puntare sulla crescita vuol dire puntare sugli investimenti. È solo il profitto, capitalistico o cooperativo ch’esso sia, a creare lavoro e con il lavoro la ricostruzione della società. Una società di cui vi è sempre più disperatamente bisogno. È questa la catarsi che attendiamo. Non ci basta aver avuto ragione. 
 
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