Grecia, l'insuccesso tedesco e quel torto all'Italia

di Virman Cusenza
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Lunedì 6 Luglio 2015, 21:56 - Ultimo aggiornamento: 7 Luglio, 08:28
L’immagine è cruda, ma rende bene l’idea. Il paventato muro contro cui Angela Merkel prevedeva si schiantasse il popolo greco, votando no al referendum, porta la sagoma della cancelliera tedesca. Perché così come la vittoria ha sempre tanti padri, la sconfitta in questo caso ha una madre certa. La valanga di schede che ad Atene e dintorni ha bocciato l'umiliante proposta europea, ha infatti l'indelebile tratto della sconfitta tedesca.

In poche ore si è materializzato l'esito di una gestione germanocentrica dell'Europa, in cui Berlino e i suoi satelliti vorrebbero sagomare l'intera Unione. Una visione ragionieristica che finisce con lo svilire il grande sogno che i padri dell'Europa vollero tracciare, proprio a Roma, nel '56.

Oggi avremo sotto gli occhi il frutto di questa impostazione. E la logica implacabile dei fatti non lascerà scampo. Se arriveranno concessioni e aperture, in direzione del salvataggio di Atene, allora avremo la prova che aver portato allo stremo e senza costrutto un Paese fondatore dell'euro, pur con le sue storiche colpe, è stato non solo inutile ma sconsiderato. Se invece, la situazione sfuggisse addirittura di mano e la Grecia precipitasse fuori dall'orbita europea assisteremo ad un grande disastro indotto dalla cecità della tecnocrazia.



Le premesse non sono delle migliori. E lo si è capito plasticamente con il vertice a due Merkel-Holland di ieri pomeriggio all'Eliseo. Un passaggio che non è solo un imbarazzante déjà vu che tradisce la mancata comprensione del momento storico, riproponendo vecchi schemi. Ma è la dimostrazione lampante che in Europa i patti sono da rivedere. Appare inaccettabile la riedizione di un Direttorio che fino a pochi anni fa ha lasciato macerie politiche (e non solo) sul suolo europeo. Quella stretta di mano sulle scale dell'Eliseo è un'offesa agli organi eletti dell'Unione, uno schiaffo all'impianto democratico voluto quasi sessant'anni fa con un gesto forte e coraggioso.



Nel suo affascinante volume «Diplomacy», dedicato al Congresso di Vienna - quello in cui i grandi Paesi d'Europa si spartirono le spoglie dell'impero napoleonico - Henry Kissinger tratteggia la figura di Talleyrand, il fine tessitore che con abili trattative segrete quanto efficaci riusciva ad ottenere il punto mediano, senza l’intransigenza dei suoi emuli e senza umiliare nessuno dei contraenti al tavolo: che poi è il successo di ogni trattativa che si rispetti. Successo che alla fine misura la differenza tra un vero leader e un semplice capo.



E che a molti fa rimpiangere la lungimiranza di un Kohl. Ebbene, quel Direttorio di ieri taglia fuori il Paese che appare nelle classifiche ufficiali come il terzo creditore della Grecia: il nostro. L'Italia che ha tutto il diritto, essendo tra i Paesi fondatori della prima ora, di far sentire la sua voce in Europa. E non merita l’affronto di esser messa davanti al fatto compiuto, espropriata dei poteri decisionali che le spettano in quanto contraente di spicco al tavolo di Bruxelles. Evidentemente nel Palazzo della Cancelliera non c'è la nitida consapevolezza di quanto sia ormai tramontata la stagione di un'Europa non tra Pari ma impiccata a regole e norme a egemonia tedesca.



Quel modello non può più funzionare.
La prova? Chi è in grado di dire che cosa accadrebbe se, dopo la Grecia, si votasse un analogo referendum in qualche altro Paese dell’Unione? Assisteremmo a risultati eclatanti e non osiamo pensare ai contraccolpi. Già fa tremare l'idea che l'anno prossimo l'Inghilterra sia chiamata a scegliere tra dentro e fuori dall'Europa. Dopo la notte del no di Atene tutto diventa possibile.