Bitcoin nuovo paradiso fiscale. L'ipotesi di una tassa sulla moneta virtuale

Bitcoin nuovo paradiso fiscale. L'ipotesi di una tassa sulla moneta virtuale
di Giovambattista Palumbo
8 Minuti di Lettura
Lunedì 15 Giugno 2015, 15:57 - Ultimo aggiornamento: 17 Giugno, 15:52
Il Bitcoin, la moneta virtuale utilizzata per transazioni online, concepitai nel 2008 ed introdotta nel 2009, non offre chiarezza nella tracciabilità e, come già sottolineato anche dal rapporto 2013 della UIF, l’Unità di informazione finanziaria di Banca d’Italia, può essere strumento per riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo e delle mafie e per traffici illeciti.



In particolare, infatti, in caso di trasferimento di Bitcoin non c’è garanzia di poter individuare l'identità reale delle persone coinvolte nelle operazioni e, soprattutto, del nuovo proprietario, identificato solo da un codice numerico.



Ma perché esiste Bitcoin e a che cosa serve? E soprattutto chi ne può approfittare? Due gruppi che hanno un forte interesse in questa moneta sono senz’altro gli speculatori e chi ricicla denaro.



Gli speculatori cercano di trovare strategie di investimento, più o meno sofisticate, per trarne profitto (e non a caso dal 2011 per ben cinque volte Bitcoin ha perso più del 30% in qualche giorno).



Chi vuole riciclare denaro trova invece in Bitcoin lo strumento ideale, potendo usufruire della sua non tracciabilità, poiché le transazioni sono criptate e non è possibile monitorare né verificare l’identità di chi compra e vende.



E’ probabile, peraltro, che anche questa moneta sia destinata ad essere soppiantata da altri modelli più sofisticati (alla fine si tratta di algoritmi matematici in continua evoluzione). Come già successo, per esempio, nel caso dei Linden Dollars, quelli che si utilizzano nel mondo virtuale di Second Life.



Ma, a prescindere dal nomeii, il concetto che interessa sono i margini di sicurezza delle criptovalute virtuali e in sostanza come poter tracciare le transazioni in moneta virtuale (considerato comunque che queste operazioni sono individuabili sul database condiviso del network e che l'aspetto crittografico della transazione dovrebbe essere la sola firma digitale).



Queste sono le questioni da approfondire ai fini della sicurezza. Il fenomeno non può peraltro essere sottovalutato. Ma quali sono le caratteristiche di Bitcoin e come funziona materialmente?



In primis non richiede intermediari e non fa uso di un ente centrale. Ovvero, utilizza un database distribuito tra i nodi della rete, per questo si definisce valuta peer to peer, che tengono traccia delle transazioni e permettono di verificare che a spendere Bitcoin sia solo il legittimo proprietario, e che ciò possa accadere una volta sola, risolvendo così il problema del double spending, una delle criticità delle monete digitali più difficili da risolvere.



Come una qualsiasi moneta, i Bitcoin permettono comunque l'acquisto di beni e servizi ed esistono diversi siti dove è possibile cambiare i propri Bitcoin con Dollari, Euro, Yen o altre valute.



I Bitcoin possono infine essere accantonati in un portafoglio elettronico nel proprio pc, oppure affidati a una banca elettronica gestita dagli stessi ideatori di Bitcoin.



Come detto, è un sistema decentralizzato che non prevede per le transazioni l'intervento di banche o altri intermediari e con un software completamente open source. A differenza degli acquisti con carta di credito, le transazioni avvengono comunque in modo assolutamente anonimo.



In sostanza un mondo senza regole (etero imposte) e senza controlli. Per questo bisognerebbe prevedere interventi normativi che diano certezza di tracciabilità e chiarezza di identificazione di tutte le persone coinvolte in operazioni di trasferimento di bitcoin.



Ad oggi, infatti, la registrazione, in caso di trasferimento di bitcoin, da parte di tutti gli utenti, della firma digitale del nuovo proprietario, identificato da un codice numerico, non garantisce come ciascun utente possa individuare l'identità reale.



Negli USA l’ufficio del Ministero del Tesoro, Financial Crimes Enforcement Network, ha già peraltro sviluppato delle regole applicabili al Bitcoin, statuendo che a coloro i quali creano, ottengono, distribuiscono, scambiano, accettano o trasmettono monete virtuali si possono applicare le norme del Bank Secrecy Act del 1970, in base al quale vanno registrate tutte le operazioni finanziarie, al fine di agevolare le indagini su eventuali frodi fiscali o altre attività illecite come il riciclaggio.



Specificando però che ciò vale per chi commercia la moneta (money transmitter), mentre non ci sono obblighi per i normali utilizzatori. Gli americani stanno quindi concentrando la loro attenzione su chi tratta la moneta virtuale in modo professionale, non approfondendo la questione relativa agli users e limitandosi per questi a richiedere di dichiarare i loro eventuali guadagni, ma senza precisare se e che genere di tassazione sarà loro applicabile.



Altra questione (e non di poco conto) è infatti come tassare le transazioni/investimenti effettuati con il denaro digitale. E le differenze definitorie nella materia sono tutt’altro che accademiche: se, tornando all’esempio degli USA, il Bitcoin fosse considerato alla stregua di un investimento azionario, subirebbe infatti una tassazione del 24% (con deducibilità limitata in caso di perdite), mentre se fosse considerata come valuta allora si applicherebbe l’aliquota ben maggiore del 43% (ma con piena deducibilità in caso di perdite).



Il vero problema, del resto, è proprio che questo genere di monete potrebbero diventare una sorta di paradiso fiscale virtuale. Le cryptocurrencies hanno, infatti, tutte le caratteristiche dei paradisi fiscali: i guadagni sono sottratti ai regimi fiscali statali e l’identità dell’operatore finanziario è ben nascosta.



E le varie Amministrazioni fiscali, consapevoli di questo, si stanno cominciando a porre il problema.

Il fisco britannico, per parte sua, sta per esempio valutando di escludere la moneta elettronica dalla categoria del denaro privato (a differenza di quello che è invece l’approccio tedesco).



L’interpretazione che sembra prevalere è quella del voucher, al quale sarebbe applicabile la tassa sul valore aggiunto (Vat, la nostra Iva), che in UK ammonta al 20% del valore del bene o servizio acquistato. Il fisco tedesco ha invece definito il bitcoin come units of account e quindi forma di denaro privato, con tassazione sia sui guadagni finanziari (capital gains) dovuti alla compravendita del denaro virtuale, sia sull’acquisto di merci e servizi tramite esso (quindi con Iva), anche se, a ben vedere, la sussistenza contestuale di entrambe le tassazioni sembra contraddittoria.



In Italia, invece, come detto, non c’è stata ancora alcuna presa di posizione ufficiale, anche se in teoria, in base alla normativa attuale, la moneta virtuale dovrebbe essere considerata come valuta corrente estera e di conseguenza, in caso di scambi rilevanti che producano guadagni, dovrebbe essere dichiarati nella propria denuncia (sezione redditi diversi).



E comunque la disciplina di una materia così delicata non può andare per ordine sparso, necessitando senz’altro di un intervento in sede comunitaria. La Corte Suprema Amministrativa svedese, in data 27 maggio 2014, ha a tal fine recentemente rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, a norma dell’art. 267 TFUE la questione pregiudiziale sul trattamento Iva dei bitcoin, con le seguenti domande:



• l’attività di scambio di criptovaluta costituisce una prestazione di servizi? e, se sì,



• tale attività ricade sotto l’esenzione di cui all’art. 135 della Direttiva 112/2006/CE?



Tali questioni non sono certo di poco conto, né giuridicamente, né da un punto di vista economico.



Per giungere ad un corretto inquadramento della fattispecie occorre quindi esaminare il quadro normativo, comparare i vari paesi che si sono espressi e poi interpretarne la disciplina sulla base della direttiva comunitaria.



Tutto ciò deve essere poi valutato alla luce dell’effettivo svolgimento delle transazioni di bitcoin che portano le seguenti difficoltà:



1) individuazione del cliente, derivante dal pseudonimato (mancano i dati identificativi per l’emissione della fattura);



2) individuazione del requisito territoriale (derivante dalla ubiquità della criptovaluta).



Vero è che i principi generali delle Direttive Iva affermano che le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso, effettuate da un soggetto passivo che esercita in modo indipendente un’attività economica, sono soggette a Iva.



Vero è che le prestazioni di servizi sono definite dall’art. 24 della Direttiva 112/2006/CE come qualsiasi operazione che non costituisce una cessione di un bene, una categoria residuale interpretata dalla Corte in maniera estensiva.



E vero è che l’art. 25 della Direttiva 112/2006/CE precisa che la prestazione di servizi può consistere, tra l’altro, in una cessione di beni immateriali, rappresentati da un titolo.



Da queste premesse logiche, indipendentemente dall’assimilazione a divisa, valuta o altro, la cessione di criptovaluta dovrebbe dunque costituire un servizio di cessione di beni immateriali e non rientrare nei servizi prestati per via elettronica di cui dell’art. 56, comma 1 lett. k) ed allegato II, della direttiva Iva.



Le criptovalute, ai fini Iva, dovrebbero dunque essere assimilabili alle valute complementari e ad altri strumenti di pagamento tipo BarterCard, Loyalty Point (Credit Cards, Frequent Flyer Points), Crediti Virtuali (MMPORG) o Mobile Money (M-PESA), assimilabili, in sostanza, a ‘titoli impropri’ di cui alla lett. f) dell’art. 135: «le operazioni, compresa la negoziazione ma eccettuate la custodia e la gestione, relative ad azioni, quote parti di società o associazioni, obbligazioni e altri titoli, ad esclusione dei titoli rappresentativi di merci e dei diritti o titoli di cui all’articolo 15, paragrafo 2», altrimenti dovranno essere considerate quali servizi generici.



Del resto, analizzando le cripto valute, emerge come queste abbiano senz’altro funzione di mezzo di scambio e, data la convertibilità in valuta corrente, abbiano quindi una natura finanziaria, ancorché non in forma esclusiva.



Le criptovalute consistono, in sostanza, in un diritto a possedere una determinata quantità di una unità di conto (nel caso di specie il diritto è costituito e incorporato in una stringa alfanumerica contenente una determinata quantità, trasferibile a terzi).



Essendo allora il trasferimento di criptovaluta, anche in campo Iva a livello comunitario, assimilato agli ‘altri titoli’, per i quali è prevista l’esenzione a norma dell’art. 135.1.(f) della direttiva 112/2006/CE, in Italia si dovrebbe applicare l’art. 10 comma 1, n. 4), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.



E comunque non bisogna dimenticare che la cessione di criptovalute contro beni e servizi integra il concetto di permuta, laddove la permuta, nella normativa Iva, ha un’accezione più ampia rispetto alla corrispondente nozione civilistica contenuta nell’art. 1552 c.c..



Nella permuta le cessioni di beni e/o le prestazioni di servizi permutate o utilizzate per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate (art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972) e quindi le operazioni sono considerate operazioni imponibili autonome e da assoggettare distintamente all’Iva con un’autonoma verifica dei presupposti d’imposta, sotto i profili oggettivo, soggettivo e territoriale.



Nella permuta tra un soggetto passivo e un ‘privato’ assume dunque rilievo a fini Iva solo la prima, la cessione/prestazione, mentre la seconda cessione prestazione è fuori campo IVA per carenza del presupposto soggettivo.



In ogni caso, i contratti aventi ad oggetto operazioni permutative, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 633/1972, sono operazioni autonome e indipendenti agli effetti dell’Iva; pertanto, ciascuna prestazione di servizi va considerata separatamente, verificando per ognuna di esse il requisito di territorialitàiii.



Perciò, in caso di cessione di criptovaluta contro beni o servizi, la base imponibile sarà costituita, per il cedente di criptovaluta al valore normale (rilevato dagli usi, quotazione in quel momento con tutte le problematiche che possono derivarne) con esenzione ex art. 10, mentre per chi cede beni e servizi si applicherà il regime Iva che normalmente applica (per il cedente delle cripto valute, peraltro, non essendo applicabile l’Iva, l’Iva pagata sugli acquisti non sarà detraibile e la liquidazione dell’imposta dovrebbe seguire le regole del pro-rata).



Da quanto sopra evidenziato emerge dunque, in tutta la sua urgenza, l’opportunità di un serio dibattito sull’argomento, sia ai fini della sicurezza e del contrasto ad attività criminali, quali il riciclaggio, sia ai fini di ben comprendere quale sia l’esatto regime fiscale da applicare a tali tipi di operazioni. Esatto regime da cui, visto il giro d’affari sempre crescente, potrebbero derivare non poche risorse erariali.

Risorse che oggi sfuggono completamente ad ogni controllo e ad ogni recupero.





note:



i Da un individuo noto solo con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto.









ii Negli ultimi anni sono nate anche la Litecoin, la Worldcoin, Namecoin, Hobonickels, Gridcoin, Fireflycoin, Zeusacoin.









iii Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 1 agosto 2008, n. 339/E.




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