Fin qui tutto bene
di

Camminare fa male

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Sabato 21 Giugno 2014, 05:07
Diario Brasile, sedicesimo e diciassettesimo giorno Quando mi sveglierò la mattina, da oggi in poi, nel guardarmi allo specchio, mi dirò: «Buongiorno Antenone», che sa molto di eroe dell'antica Grecia. Antenone sono io. Alessandro Antenone. Sì, Alessandro ancora lo voglio mantenere, perché con la Grecia ci sta sempre bene. Giorno di Italia-Costa Rica, siamo a Recife. Scendiamo dall'albergo, tra l'altro bellissimo (una splendida vista sull'Oceano), intorno alle 10. Appuntamento fissato dalla sera prima con l'autista per raggiungere l'Arena Pernambuco, dove alle nostre 13, dico all'una, cioè tre ore prima del fischio d'inizio, si sarebbe giocato. Fuori la hall non vedo nessuno, solo taxi. Ma non sono roba nostra, noi abbiamo a disposizione una macchina, trasferimenti programmati e pagati già da Roma. Ne vedo una sospetta, con un tizio che tre minuti sta dentro e tre minuti fuori l'automobile. Mi chiedo: è lui il nostro uomo. Vado, e gli dico: «Macchina. Angeloni. Trani. Messaggero. Capito?». «No», risponde il tizio, che sulla macchina ha scritto Rai. Non è il nostro uomo, penso. E lui scuote la testa, rientrando in macchina. Chiamiamo l'organizzazione: i toni non sono proprio pacati, anzi. Ci assicurano che chiamano i responsabili dei trasferimenti e ci fanno sapere. Dopo dieci minuti, quel tizio viene da noi e dice. «Antenone». «Antenone chi?», ho pensato. Poi mi sono detto, «vuoi vedere che sto Antenone sono io e quel tizio era davvero il nostro uomo?» Era così. Appena arrivato a Rio ho trovato un uomo con scritto Angelone, stavolta Antenone. Intanto erano le 10.40. Vabbè, è tardi ma arriviamo comuque comodi. comodi? Seeeeeee. Il peggio doveva arrivare. Partiamo con fiducia, un pezzo di traffico lì, un altro pezzo dillà. Normale, siamo in Brasile. E qui a Recife è vero Brasile, ci sono la spiaggia, il mare, bambini che giocano con il pallone etc etc (ah, donne con i bei sederi non ci sono nemmeno qui). A un certo punto il traffico diventa un bicchiere pieno d'acqua e noi stavamo cominciando ad affogare. «Come ti chiami?», chiediamo all'autista dopo mezzora di tragitto e pochi chilometri percorsi. «Augusto». «Senti imperatore Augusto, bisogna che cambi strada, qui comincia ed essere tardi». Lui obbedisce, cambia strada, non so che giro fa, per me poteva essere passato per Brasilia. Ci ritroviamo in mezzo a un paio di favelas, caratteristiche non c'è dubbio, ma cominciano ad essere le undici e mezzo e la situazione diventa obiettivamente drammatica. Non sudo per l'ansia perché nella macchina c'è l'aria condizionata a palla, ma internamente sono un oceano caldo di sudore. Buchiamo la partita, buchiamo la partita. Il sospetto diventa realtà. Siamo sotto un ponticello, per me poteva essere la tangenziale di Recife. Fermi da un quarto d'ora. Dall'altra parte tutto bloccato. Quanto manca per lo stadio? «Dodici tredici chilometri», risponde l'imperatore Augusto, è quasi a mezzo giorno, un'ora dal fischio di inizio. «Andiamo a piedi», propone Ugo. «Si, giusto», risponde Pizzoferrato, il collega di Area, che è sempre con noi. «Ma che ve sete bevuti?», chioso io, ma erano già scesi. Cazzo, tredici chilometri a piedi senza acqua e con trenta gradi sulla testa. Non era il massimo. Come se in pieno agosto a Roma decidi di fare una passeggiata: Euro-Stadio Olimpico, non Piazzale Clodio-Stadio Olimpico. Scendiamo e camminiamo: avevamo preso la porta d'ingresso per l'agonia. In silenzio cominciamo a incamminarci verso l'Arena Pernambuco, pensando che mi servivano le energie quantomeno per salutare i famigliari a casa. Non li avrei visti mai più. Facciamo due chilometri, già si boccheggiava. Non ce l'avremmo fatta mai e io pensavo a un sistema per non andare a piedi, perché non era proponibile. Ad un certo punto, Ugo urla a un taxi che passava dalle nostre parti. Si ferma duecento metri dopo. Un oasi nel deserto. Saliamo. «Arena Pernambuco», la parola d'ordine. Via, si parte. Il tassinaro somigliava a Polifroni e così lo abbiamo chiamato per tutto il percorso. «Polifrò, a che ora arriviamo allo stadio?». «12.30». Seeee, vabbè facciamo finta di crederci. Erano le 12 e 15. Questo tizio non rispetta un segnale: corsie di emergenza, semafori rossi, buche, gincane, un pazzo scatenato il vecchio Polifroni nero. Nel frattempo notiamo che anche qualche nostro collega ha avuto lo stesso problema e ha raggiunto lo stadio fermando i passanti motorizzati, a pagamento ovvio. Un disastro. Arriviamo nei pressi dello stadio, lo vediamo a un chilometro (almeno sembrava quella la distanza, ma ormai avevamo le allucinazioni), ci ferma la polizia. «No, gasolina». «Gasolina? Gaso - dico io - che è mo sta gasolina? MA che vuoi, lasciaci passare. Prensa, prensa, media center». Gasolina è un semplice benzinaio nei pressi dello stadio. Potete arrivare al massimo lì, questo intendeva il policmen. Scendiamo a questo benedetto benzinaio, paghiamo il taxi dopo una trattativa. Ci spenna. L'ultimo chilometro è ovviamente a piedi. Sempre 30 gradi fa. E noi siamo esausti. «Vedrete, entriamo in tempo per gli inni», Ugo prova a elargire orrimismo. Io pensavo, «se ce la facciamo al quarto pt già è un miracolo». Arriviamo al centro stampa. Tempo di bere e mangiare una cosa al volo. La tribuna stampa è al quarto piano, non c'è ascensore. Scala all'aperto, ovviamente al sole. Sempre ci accompagnano quei famosi trenta gradi sulla testa. Corriamo, con le ultime forze che abbiamo. Corri corri corri....«Frateelli d'Italiaaa...». Aveva ragione Ugo. Ma che incubo. Resterà per tutta la vita nella mia testa quel botta e risposta delirante, «mancano dodici tredici chilometri allo stadio». «Ok, scendiamo e andiamo a piedi». Così, all'infinito. Ora andiamo a Natal. Benedetto aereo, e detto da me...       
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