Juan Pablo, figlio del narcotrafficante colombiano: «Mio padre Escobar fu seguace di Totò Riina»

Juan Pablo, figlio del narcotrafficante colombiano: «Mio padre Escobar fu seguace di Totò Riina»
di Marco Ventura
6 Minuti di Lettura
Domenica 26 Marzo 2017, 10:14 - Ultimo aggiornamento: 27 Marzo, 10:58

«Papà mi parlava spesso di Totò Riina, aveva imparato molto da come la mafia affrontava lo Stato e copiò alcuni dei suoi metodi, come la strage di Capaci in cui morì il giudice Falcone». Juan Pablo Escobar, figlio 40enne di Pablo Escobar, il più potente e sanguinario narcotrafficante della storia ucciso da una squadra speciale il 2 dicembre 1993 nel quartiere Los Olivos di Medellín, distilla ricordi della sua formidabile adolescenza tra jet e zoo privati, opulenza e omicidi. Un passato che ha descritto in Pablo Escobar, il padrone del male e ora in Pablo Escobar, gli ultimi segreti dei Narcos (Newton Compton Editori). Juan Pablo oggi fa l'architetto e vive sotto pseudonimo in Argentina con la moglie e un figlio di 4 anni.

 

A 16 anni lei giurò che avrebbe ucciso con le proprie mani gli assassini di suo padre. Che cosa scattò?
«Per dieci minuti ho voluto essere Pablo Escobar 2.0. Mi misi a pensare come avrei potuto mettere in atto la vendetta e confesso che mi fece molta paura rendermi conto di quello che sarei stato in grado di fare. Mi ricordai allora di tutte le volte che avevo chiesto a mio padre di non essere violento e sentivo di non voler essere come lui. Sono stati i minuti decisivi della mia vita. Ero a un passo dal ripetere una storia che sapevo bene come era iniziata e dove mi avrebbe portato».

Così fuggì in Argentina e diventò architetto. Perché?
«I miei compagni di studio avevano inventato una battuta: mio padre teneva un'impresa di demolizione, io di costruzione. Credo che vedere attorno a me tanta distruzione mi abbia indotto a volermi dedicare alla costruzione. L'architettura mi ha salvato la vita».

È stato difficile? Che cosa le rimase di quei 30 miliardi di dollari che Forbes stimava essere il patrimonio di suo padre?
«Più che ricostruire la mia vita, l'ho dovuta reinventare. Per cinque anni ebbi il privilegio di non essere nessuno. Di tutte quelle ricchezze non è rimasto nulla, tranne l'amore verso mio padre e l'amore e i valori con cui ci aveva cresciuti. Suonerà come una contraddizione parlare di valori, ma Pablo Escobar dentro casa era una persona e fuori un'altra».

Lei era consapevole di tutto il sangue e i crimini che c'erano dietro?
«Quando avevo 7 anni mio padre mi disse che era un bandito. Non si faceva scrupolo di riconoscere la responsabilità degli attentati che vedevamo alla tv o leggevamo sui giornali. Preferiva che lo sapessimo dalla sua bocca. Io non avevo alternativa: davo ragione a chi mi diceva che era molto buono e a chi invece diceva che era stato molto cattivo. Sono verità entrambe».

Nel suo ultimo libro incontra i nemici e i figli dei nemici di suo padre. C'è qualcosa che non ha potuto scrivere?
«Molte cose. O per le minacce o perché non avevo le prove. C'è una storia molto interessante che non sono stato autorizzato a scrivere. Le famiglie preferiscono restare anonime anche se in passato i genitori erano famosi».

Una storia di mafia o di politica?
«Mafia, anche se a volte mafia e politica sono molto simili».

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«Fu terribile. Era il 1985, mio padre era nel pieno della sua attività di narcotraffico. Diede l'ordine ai piloti di abbandonare il lavoro e aiutare la gente. Era strano vedere gli elicotteri della polizia atterrare fianco a fianco a quelli di mio padre. Erano due, uno blu e bianco, un altro blu e rosso».

Ci sono storie che la inseguono ancora?
«Morirò portandomi dietro queste storie. Non ho scelta. Quello che mi insegue è il pregiudizio: ho il sottomento di Pablo Escobar, ma non sono lui. Ho trovato molte porte chiuse e mi è stata proposta molta violenza alla quale non bisogna cedere. Ci vuole lo stesso coraggio a essere un uomo di pace che un uomo di guerra».

Ancora si discute su com'è morto Pablo Escobar. La sua versione?
«La mia non è una versione, è la verità: mio padre si tirò un colpo prima che potessero sparargli. Per me è indifferente, poteva anche averlo messo sotto un camion. Chi racconta che lo hanno ucciso vuole fare bella figura. La realtà è che non sono stati gli americani né la polizia colombiana. Fu lui a farsi trovare, loro non ce l'avrebbero mai fatta».

Quali elementi ha per dirlo?
«Mio padre continuava a telefonarci e io ad attaccare per proteggerlo. Sapeva che stava per morire e che lo stavano trovando. Negli ultimi dieci anni mi aveva insegnato a non usare mai il telefono. Il telefono, mi diceva, è sinonimo di morte, se lo tocchi sei morto. Lui lo sapeva, era l'uomo più ricercato del mondo e non era uno stupido. Allora perché ci telefonava? E perché continuava a chiamare l'albergo di proprietà delle forze militari della Colombia quando la stessa telefonata poteva farla fare ad altri?».

Quindi si è ucciso?
«Mi aveva sempre detto che avrebbe voluto morire suicida. La morte per lui non era un tabù, era la realtà quotidiana. A 23 anni aveva detto agli amici che se a 30 non avesse avuto un milione di dollari si sarebbe ucciso. A me aveva insegnato come suicidarmi, sparandomi in testa ma non sotto la bocca, alla tempia o sulla fronte, perché il tiro poteva essere deviato. Si era consultato con un medico e il punto migliore, mi disse, era l'orecchio destro. Il rapporto dei medici legali lo conferma. Poi lui non andava mai scalzo, le scarpe erano attaccate al mitra, le teneva anche mentre si lavava alle 11. Ma quel giorno era senza scarpe, non aveva intenzione di fuggire».

Perché uccidersi?
«Aveva capito che io mia madre e mia sorella eravamo stati costretti a salire su un volo Lufthansa dalla Germania e rientrare in Colombia. L'avvocatessa d'ufficio urlava che noi avevamo il diritto di scegliere la destinazione. E avevamo il denaro per andare dalla parte opposta del mondo. Mio padre capì che o venivamo uccisi noi o lui. Eravamo ostaggi. Uccidersi è stato il suo più grande atto d'amore: lasciare la vita per liberare la famiglia».

Perché ci ha messo vent'anni a raccontare tutto?
«Ho lasciato che parlassero prima gli altri. Mi piace parlare per ultimo. Questi vent'anni mi sono serviti a crescere, maturare e riconoscere i principali crimini di mio padre».

Che cosa ha in comune con lui?
«La frontalidad, l'affrontare le cose di petto, senza fronzoli. L'ho imparato da lui, che ammetteva tutti i suoi reati».

Che cosa dice del nonno a suo figlio Juan Emilio?
«Finora gli ho raccontato gli aspetti belli, la passione per gli animali, l'ecologia, le automobili, le moto, i dinosauri che aveva costruito su scala reale in un Parco Giurassico. Sarebbe pessimo che come padre insegnassi l'odio per il nonno. Ma tra poco, quando sarà più grande, come mio padre raccontò a me le sue malefatte a 7 anni, io le racconterò a lui. La mia sfida è metterlo in condizione di scegliere se essere come suo nonno o no. Perché la storia non si ripeta».