L'eredità di Gentile e la verità storica

Un francobollo, un convegno e una mostra per gli ottant’anni dalla morte di un filosofo troppo spesso ostracizzato

L'eredità di Gentile e la verità storica
di Alessandro Campi
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Lunedì 15 Aprile 2024, 06:50

Una mostra, un convegno, un francobollo. Tutto nel segno di Giovanni Gentile (1875-1944). Il “filosofo in camicia nera” – peggio, il “filosofo del manganello” – secondo una livorosa vulgata antifascista. Se non fosse che il miglior antifascismo italiano – comunista, radical-democratico, laico-liberale: da Gramsci a Capitini, da Gobetti a Cantimori, da Omodeo a Calogero – si è formato con Gentile o nel segno del gentilianesimo politico-filosofico. La storia è complessa, specie quando non la si conosce o, peggio, la si dimentica.

L’UCCISIONE

Quest’anno sono ottant’anni esatti dalla sua uccisione, avvenuta appunto il 15 aprile 1944. Non c’è nessun mistero intorno ad essa, come si è sostenuto per decenni. Fu ucciso da cinque partigiani comunisti fiorentini su ordine del loro partito. Gentile, che aveva aderito alla Repubblica di Salò per un senso di estrema fedeltà a Mussolini e sotto il peso di alcune dolorose contingenze personali, era per la pacificazione tra gli italiani e più volte aveva lamentato le violenze del fascismo estremista. Ma nelle guerre civili, che seguono una logica implacabile verso l’estremo, i primi a cadere sono sempre i moderati e i fautori del dialogo tra le parti in lotta. Gentile non fece eccezione a questa tragica regola.

IL SIGNIFICATO

Altra cosa è il significato postumo, politico e simbolico, di quella morte. Per i neo-fascisti egli è stato sempre e solo un martire della loro causa, vittima di una violenza barbara asiatica. In realtà, il suo sacrificio, per molti versi atteso e consapevole, ha avuto implicazioni che vanno oltre un singolo schieramento ideologico e investono l’intera storia nazionale. Fu infatti l’uccisione di un filosofo che aveva creduto nella cultura come azione, prassi storica e impegno pubblico al servizio di una causa collettiva. I comunisti fecero propria questa concezione ma al prezzo di doverlo eliminare fisicamente e sul piano della memoria. 

Gentile fu in effetti un tipo particolare, ma tipicamente italiano, di profeta-pedagogo. Aveva, come pensatore, il senso di una missione da compiere: l’unità politico-statuale della nazione italiana come compimento di un destino comune e di una tradizione culturale da lui sempre concepita in una chiave unitaria. Da qui il suo attivismo sul versante dell’organizzazione culturale, che è il cuore della mostra voluta dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, Scendere per strada. Giovanni Gentile tra cultura, istituzioni e politica, aperta da oggi a Roma presso l’Istituto Centrale per la Grafica. La creazione di istituti, centri di ricerca, accademie, cattedre, riviste e collane librarie non è stata la bulimia di un intellettuale messosi al servizio di un potere dittatoriale per trarne un profitto personale. 

IL DISEGNO

Gentile aveva un disegno ambizioso: creare la nervatura etico-culturale di uno Stato ancora giovane, con l’obiettivo di formarne le future classi dirigenti e i cittadini.
 Ne consegue che la sua scelta di coinvolgere in questi progetti anche intellettuali e studiosi apertamente in odore di antifascismo non fu espressione di una sua visione liberale e tollerante della cultura, o peggio paternalistica e baronale.

Nemmeno c’era l’idea di costruire in modo coattivo una qualche egemonia ideologica. L’idea, più organicistica che totalitaria, era che ogni segmento della cultura nazionale, anche quelle avverse al regime, dovesse partecipare all’edificazione della nuova Italia che il fascismo legittimato dalla vittoria nella Grande Guerra aveva ereditato dal Risorgimento liberale. Un disegno costruttivo civico-culturale al quale gli uomini di cultura non potevano sottrarsi.

Le istituzioni culturali progettate da Gentile o da lui ripensate e dirette – dall’Enciclopedia Italiana alla Scuola Normale di Pisa, dalla Domus Galileiana all’Istituto italiano per l’estremo Oriente, dalla Bocconi all’Istituto italiano di studi germanici, dall’Istituto mazziniano al Centro nazionale di studi manzoniani, senza dimenticare la sua riforma della scuola – non a caso gli sono tutte sopravvissute. Attive durante il regime, non erano funzionali solo al fascismo, ma servivano evidentemente all’Italia, anche quella poi divenuta democratica e repubblicana. Ma di Gentile resta, a dispetto di certe liquidazioni forzate, anche il pensiero, oggetto del convegno organizzato al Senato per domani, martedì 16 aprile, con la partecipazione, tra gli altri, di Massimo Cacciari, Francesco Perfetti e Giuseppe Bedeschi. La sua fu una filosofia fascista e dunque oggi da buttare? Come ha spiegato anni fa Emanuele Severino, che ha sempre considerato Gentile un filosofo speculativo di valore europeo, non è stato quest’ultimo ad essere fascista, è stato il fascismo che ha cercato di essere gentiliano, al dunque senza riuscirci.

IL PROBLEMA

L’attualismo, come sistema teorico, è nato in effetti prima dell’ascesa di Mussolini al potere. Ma allora come e su che basi si è prodotto l’incontro fatale tra il filosofo e il dittatore? Il problema è che Gentile è stato, a suo modo, un pensatore della libertà: non la libertà borghese dell’individualismo liberale, ma la libertà per lui autentica che si realizza in una dimensione sociale e collettiva e che trova nello Stato, forte e autorevole, la sua realizzazione pratica. Gentile pensò che il fascismo stesse costruendo lo Stato nuovo degli italiani, nel segno dell’eredità unitaria del Risorgimento. Un tragico abbaglio storico, politico e teoretico, col senno del poi, pagato coerentemente con la vita. 
 

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