Il gioco delle tre carte/Chi illude il Nord con promesse impossibili

di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 25 Ottobre 2017, 00:02
Ad urne appena chiuse, o a tablet appena spenti, i presidenti di Veneto e Lombardia hanno dichiarato la loro soddisfazione per la partecipazione al voto. Soddisfazione senz’altro giustificata nel caso veneto, dove l’affluenza ha raggiunto il 57%, e un po’ meno nel caso lombardo, dove si è fermata al 38%. Tanto netta quanto scontata la vittoria del Sì. E se Maroni in Lombardia sembra voler avviare un processo di ampio coinvolgimento degli stakeholders locali, puntando su una definizione più operativa degli ambiti delle materie da trasferire, Zaia ha già cominciato a cambiare le carte in tavola, usando il risultato referendario per riproporre le più antiche e contestate rivendicazioni autonomiste venete. 

Veneto e Lombardia si uniscono quindi all’Emilia-Romagna, terza regione che ha chiesto maggiore autonomia. Che cosa succederà ora? A questo punto può finalmente e formalmente cominciare la procedura prevista dall’articolo 116 della Costituzione. L’organo regionale competente dovrà approvare una richiesta che sarà poi inviata al Governo e che diventerà la base per una trattativa. Se sarà raggiunto un accordo tra le parti, questo sarà sottoposto al giudizio del Parlamento, che dovrà approvarlo a maggioranza qualificata. Il passaggio parlamentare, oltre che costituzionalmente sacrosanto, diventa estremamente interessante.

Diventa interessante perché costringerà i partiti nazionali a prendere posizione in merito alla questione. E li costringerà a farlo proprio nel pieno della campagna elettorale per le elezioni politiche. A conti fatti, l’Emilia-Romagna parte in vantaggio rispetto alle altre due Regioni. Innanzitutto, perché non avendo organizzato il referendum, non previsto dalla Costituzione, ha percorso una strada più breve. 

Inoltre perché le richieste, già formalizzate nelle mani del Presidente del Consiglio, sono ben circostanziate e limitate a sei sole materie: tutela e sicurezza del lavoro, istruzione tecnica e professionale; internazionalizzazione delle imprese, ricerca scientifica e tecnologica, sostegno all’innovazione; territorio e rigenerazione urbana, ambiente e infrastrutture; tutela della salute; competenze complementari e accessorie riferite alla governance istituzionale e al coordinamento della finanza pubblica; organizzazione della giustizia di pace.

Si tratta di ambiti interessanti ma che a livello economico appaiono decisamente limitati: una strada sostanzialmente in discesa. Lombardia e Veneto invece intavoleranno la trattative rispetto a tutte e 23 le materie possibili, compresa l’istruzione: un piatto che potrebbe valere oltre 5 miliardi in Lombardia e quasi 3 in Veneto. Le regioni otterranno anche un taglio delle tasse a livello locale? Ovviamente no, almeno nel breve periodo. A seconda di quante competenze verranno trasferite, lo Stato calcolerà la sua attuale spesa per quelle materie e concederà alle regioni di tenere sul proprio territorio esattamente la stessa cifra: più risorse ma inferiori trasferimenti significano lasciare inalterati i residui fiscali. 

Ammesso - e non concesso - che le regioni sapranno amministrare con efficienza, potrebbero emergere nel medio periodo dei guadagni traducibili in diminuzione della pressione fiscale. Più probabilmente, tuttavia, eventuali risparmi si tradurranno in maggiori servizi. In ogni caso, sono irrealistiche le richieste di voler tenere sul territorio gran parte delle imposte versate a Roma: il patto costituzionale prevede che tutti i cittadini godano degli stessi trattamenti minimi essenziali. Ove non ci siano le risorse, come nel caso delle regioni più povere, queste devono necessariamente arrivare dalle regioni più ricche. Ne va dell’unità dello Stato e della garanzia di uguaglianza dei suoi cittadini. Fuori luogo anche la richiesta di uno Statuto speciale da parte della regione Veneto. Tutto ciò rischia di creare tensione tra i cittadini e lo Stato centrale, davvero un brutto modo per cominciare questo processo che, la Catalogna insegna, per avere successo deve essere svolto in collaborazione e non certo in opposizione tra Stato e Regioni. 

Zaia, che fino a domenica sera brandiva una sentenza della Corte costituzionale (la 118 del 2015) per giustificare il suo referendum, improvvisamente sembra dimenticare che quella stessa sentenza vietava che la consultazione potesse tenersi sulla richiesta di Statuto speciale e di autonomia finanziaria. Con un abile gioco di mano, insomma, il presidente veneto strumentalizza il voto espresso, crea aspettative irrealizzabili nei suoi cittadini e si avvia verso una trattativa destinata a fallire in partenza. Un gioco delle tre carte dove a perderci saranno, in primo luogo, proprio i cittadini veneti.

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