Wolff e Kafka, storia di un’editoria che non c’è più

Wolff e Kafka, storia di un’editoria che non c’è più
di Luca Ricci
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Sabato 13 Settembre 2014, 09:28 - Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 14:08

Luca Ricci (Twitter: @LuRicci74)

Di recente Adelphi ha mandato in libreria un volumetto gadget che raccoglie un testo di Kurt Wolff su Franz Kafka, più alcune lettere che i due si scambiarono nel corso degli anni. Sono poche pagine di strepitosa letteratura fantastica, verrebbe da dire, visto che l’editore Wolff non ha mai preoccupazioni di tipo pratico riguardo alla diffusione delle opere di Kafka, e di contro lo scrittore Kafka non sollecita mai il suo editore per essere pagato.

Commuove- e fa quasi rabbia per chi debba avere a che fare con gli editori di oggi- leggere lo scritto che Wolff dedica a Kafka. Il testo, oltre a parlare dello scrittore praghese, può essere letto infatti come una specie di breviario ideale su quello che dovrebbe essere il rapporto tra un editore e uno scrittore. Wolff apre il suo scritto ammettendo candidamente quello che per un editore di oggi sarebbe un atto di condanna a morte per lo scrittore, una specie di fatwa editoriale: “I libri vennero stampati in mille esemplari e, finché Kafka fu in vita, non ricordo fosse necessaria una seconda edizione di una qualsiasi delle sue opere”. E rincara la dose frantumando un altro tabù della odierna editoria, e cioè che gli scrittori debbano sfornare per forza romanzi: “Le opere di Kafka più deliziose sul piano poetico e più perfette quanto a bellezza del linguaggio erano e rimangono per me le grandi prose brevi”.

D’altro canto, quando s’incontrano per la prima volta nel 1912 nell’ufficio della casa editrice a Lipsia, Kafka dice una cosa altrettanto straordinaria a quello che diverrà il suo editore: “Le mostrerò sempre maggior gratitudine per la restituzione dei miei manoscritti che non per la loro pubblicazione”. Diciamo che Kafka non avrebbe mai partecipato a un reality show per esordienti tipo Masterpiece. All’epoca era un giovane taciturno, vulnerabile e impacciato, e per tutta la vita avrebbe mostrato questo sentimento ambivalente circa la pubblicazione dei suoi scritti: da una parte il desiderio di evadere dal suo lavoro presso l’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro; dall’altra la paura paralizzante di aprirsi al mondo.

Viviamo in un’epoca in cui mille autori americani- tra cui Stephen King e John Grisham (e molto altri bestselleristi)- hanno scritto una lettera aperta ad Amazon, colpevole secondo loro di danneggiare gli scrittori che non accettano le condizioni di vendita proposte da Jeff Bezos. E’ comprensibile, in un mercato divenuto globale, in cui la letteratura pop è destinata a milioni di persone (consumatori prima che lettori). Tuttavia non si può non pensare che sia intervenuta una sorta di perversione nella natura del rapporto tra editore e scrittore (ma anche tra editore e venditore, venditore e lettore, e così via).

Tornando a Wolff e Kafka, i due anche per missiva continuano quello che, letto con gli occhi di oggi, rappresenta a tutti gli effetti un rapporto scandaloso, quasi pornografico. Il 27 luglio 1917 Kafka scrive: “Mi affido in tutto e per tutto a Lei per quanto riguarda la veste editoriale, né al momento mi interessa l’aspetto economico”. Wolff risponde il 1 agosto 1917: “Sarò felice- e lo dico con tutta sincerità, mi creda- di poterLe garantire un costante sostegno materiale, sui cui dettagli non avremo certo difficoltà a metterci d’accordo”.