In sala, come sullo schermo, Lelouch dosa sapientemente il flashback. «Ho imparato a fare i conti con quello che considero l’attore principale di un film, la macchina da presa, l’unica che è sempre in scena. Ho appreso dalla strada, la miglior scuola secondo me. Sono un regista amatoriale, ho girato quasi 50 film imparando passo a passo che tutto concorre a fare un film». Lelouch si dice «ossessionato dalla spontaneità e dalla verità», che riesce a trovare solo «negli occhi». “Un uomo, una donna” è un’opera esemplare in questo senso: «Ho cercato di trasformare gli attori in personaggi». Anouk Aimee e Jean Louis Trintignant, protagonisti della pellicola, «hanno scoperto la sceneggiatura giorno dopo giorno, così avevo l’impressione che potessero vivere la storia, invece che interpretarla». L’origine del film che ottenne il Grand Prix a Cannes nel ‘66 e l’anno successivo l’Oscar come miglior film straniero, è ben lontana dagli stereotipi della felicità. «Quando ho realizzato questo film, l’ho fatto credendo fosse l’ultimo. Il film precedente era andato malissimo. Sono uscito distrutto dalla proiezione a Parigi, demoralizzato e depresso. Sono salito in macchina e ho guidato a tutta velocità, di notte. Fino a che sono arrivato a Deauville. Qui, sulla spiaggia, all’alba ho visto una donna che passeggiava con il suo cane; solo una silhouette che si allontanava, non ho mai visto in volto quella signora. Mi è sembrata un’immagine bellissima, l’inizio di qualcosa. In due ore, in un bar, ho scritto il film».
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