Remo Remotti, addio Roma, stavolta me ne vado sul serio

Remo Remotti nei panni di Freud in Sogni d'oro di Nanni Moretti
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 24 Giugno 2015, 17:47 - Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 10:36

Remo Remotti doveva avere un segreto ma se l’è portato nella tomba, tanto che oggi è difficile credere che sia morto davvero. Solo con un segreto infatti si possono vivere tutte quelle vite insieme, superare i 90 anni, fare il primo figlio a 64 (una figlia per la precisione) e restare sempre giovane. Cioè curioso, disponibile, affamato di ogni cosa ma soprattutto di sesso, pronto a ripartire in direzioni sempre diverse andando ogni volta un po’ più vicino a se stesso.

ECLETTICO

Eppure Remotti non teneva nulla per sé.

Al contrario. Se c’è qualcuno che si è speso a piene mani, questo era lui. Attore, pittore, scultore, scrittore, poeta, ultimamente anche un po’ guru, naturalmente con tonnellate di autoironia.

Figlio della buona borghesia romana, che detesta, in vecchiaia diventa l’idolo dei giovani che lo ascoltano su Radio Rock o scoprono su YouTube le sue rime sboccate, le invettive in romanesco sulla sua città, che ama e odia come tutti i veri romani (Mamma Roma addio, giustamente una leggenda), le canzoni che incide da solo o con gruppi di giovani come i Recycle.

AUTOBIOGRAFICO

Ma la vecchiaia, che per molti è declino e per Remotti è stata quasi un’apoteosi, non si conquista per caso. Prima di mettersi a scrivere libri autobiografici e vagamente sapienziali (Ho rubato la marmellata; Memorie di un maniaco sessuale di sinistra; Diventiamo angeli: le memorie di un matto di successo; Diario segreto di un sopravvissuto; fino all’ultimo e definitivo Sesso da ospizio), Remotti cambia mille volte pelle, mestiere e anche paese.

FREUD E POI

Il grande pubblico lo scopre quando Nanni Moretti lo vuole per fare Freud, o meglio un folle che si crede Freud, in Sogni d’oro, senza sapere che la storia di quel matto afflitto da una madre possessiva che gli canta la ninnananna in tedesco si ispira proprio al rapporto di Remotti, precocemente orfano di padre, con la sua vera madre. Ma per l’artista 60enne, che era già apparso in piccole parti diretto da Bellocchio (Il gabbiano, Salto nel vuoto), Scola (La terrazza) e Franco Brogi Taviani (Masoch), è una consacrazione.

SULLO SCHERMO

Fisico imponente, sguardo elettrico, barbone da profeta, già noto per i suoi spettacoli (Remotti sposi) a chi frequenta teatrini e cantine, Remo diventa una presenza fissa benché defilata in decenni di cinema e ultimamente di tv italiana, comparendo come un portafortuna anche in molti debutti. Con Moretti lavora altre due volte (in Bianca è l’indimenticabile Siro Siri, gaudente e sboccato vicino di casa del protagonista, altro ruolo tagliato su misura; in Palombella rossa il “santone” dell’allenatore del Monteverde). Con Carlo Mazzacurati gira l’esordio, Notte italiana. Per Verdone appare in Ma che colpa abbiamo noi. Con Eros Puglielli fa finalmente un padre castratore dal coltellaccio smisurato nel “cult” in bianco e nero Il pranzo onirico. Con Massimiliano Bruno recita in Nessuno mi può giudicare e poi in Viva l’Italia.

FUGHE E RIVOLTE

Ma il cinema, che adora quel personaggio sempre sopra le righe, è solo la ciliegina sopra una torta a molti strati, non tutti indolori. Quella di Remotti è infatti anche una storia di rivolte e vagabondaggi, di fughe e dietrofront. La prima volta prende il largo nel dopoguerra, in odio alla Roma pariolina in cui è nato per stabilirsi sette anni in Perù. Dove tra mille attività fa bancarotta come gestore di una compagnia di taxi («Non ero abbastanza cinico per sfruttare gli autisti»), ma si scopre pittore grazie a una scuola serale. A fine anni 50 è di nuovo a Roma dove tenta di sistemarsi, almeno per poter dipingere in santa pace, sostenendo un colloquio con Furio Colombo, allora capo del personale alla Olivetti.

SAPIENZIALE

Naturalmente non funziona, così Remo sposa Luisa Loy, sorella di Nanni, va a vivere a Milano, viene assunto dalla casa farmaceutica Lepetit («Il nome era molto chic. Dove lavori? Alla Lepetit») e intanto conosce e frequenta i più bei nomi dell’arte. Fra cui Emilio Vedova, che nel ’64 lo porta come assistente a Berlino. La città in cui subisce il primo dei suoi tre ricoveri in manicomio (girava nudo per strada, confuso o forse pentito dalle troppe avventure).

CON NIETZSCHE E LA MERINI

Anni dopo ne avrebbe riso: «In fondo in manicomio spesso finiscono i migliori, Campana, Nietzsche, la Merini...». Ma anche quella esperienze avrebbero nutrito la sua ultima svolta, romanesco-sapienziale, che mixa Osho all’elogio dell’organo femminile. Senza ombra di iattanza e men che mai di volgarità perché alla fine «l’importante è amare, fare tutto con amore, il sesso è stato condannato solo dal cattolicesimo e dall’Islam». Forse il suo segreto alla fine era tutto lì.

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