Giovanni Veronesi: «La mia Roma che sa sempre sorprendere scoperta con Nuti»

Giovanni Veronesi: «La mia Roma che sa sempre sorprendere scoperta con Nuti»
di Giovanni Veronesi
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Lunedì 17 Luglio 2017, 08:47 - Ultimo aggiornamento: 21 Luglio, 19:53
Io sono venuto a Roma per la prima volta in motorino. Un mio amico alla guida di una Vespa 125 e io dietro. Quando sono entrato in città ho avuto subito uno straniamento: non capivo bene dove iniziassero e dove finissero i confini, quei confini che dove sono nato, a Prato, delimitavano il perimetro con estrema chiarezza. Rispetto alle case che ero stato sempre abituato a vedere, i palazzi erano troppo alti e io pensai: «Qui non posso vivere, mi sentirei oppresso, schiacciato, quasi annichilito». Il mio amico mi portò a Fontana di Trevi e poi in un negozio di jeans. Lui acquistò un paio di stivali di marca El Charro, io nulla. Ripartimmo così come eravamo venuti, nella stessa giornata. Cinque ore ad andare e cinque a tornare. Il mio battesimo fu quello e quella strada, quasi come un rito, una liturgia, l'ho rifatta tantissime volte. A Roma, dopo quel primo incontro, cominciai a tornare con frequenza.

NOVITÀ
All'inizio della mia avventura mi sembrava tutto nuovo, lunare, assurdo. La gente mangiava nei tavolini posti sui marciapiedi. Una stranezza che a Prato non era contemplata e mi pareva del tutto insensata. Andai a mangiare per la prima volta al ristorante Il matriciano, che poi è stato una sorta di mensa casalinga per un lungo biennio. Io e Francesco Nuti ci accomodavamo lì ogni santo giorno, persino a Natale e alla lunga, di quel marciapiedi obliquo, un po' in discesa, in cui chi consumava il pasto a destra aveva un'altezza diversa da quella del dirimpettaio, avevamo preso le misure. All'inizio, mangiare un piatto di spinaci mentre una 500 rombava accanto a noi sulla strada, mi lasciava francamente perplesso: «Ma questi son barbari» dicevo a Francesco che quel trapasso l'aveva già vissuto e mi diceva ridendo: «Ti ci abituerai, i piatti acquistano sapore». I tavolini selvaggi, messi sulle strisce come in quella vecchia pubblicità del Cynar, non sarebbero stata l'unica cosa di cui mi sarei stupito negli anni a venire.
A Roma proprio per seguire Francesco, con il sogno di intraprendere un mestiere non troppo dissimile dal suo, mi ero trasferito definitivamente nel 1983. Quattro anni prima di mio fratello Sandro, approfittando delle discussioni tra lui e il nostro papà. Mentre Sandro ragionava sul lasciare Prato, io trovai un pertugio nella distrazione e mi ci infilai. Arrivato a Roma conobbi Cerami che aiutò molto sia me che Sandro, di cui divenne poi grande amico. Roma creava innumerevoli occasioni di svago, creazione e distrazione. Nei primi tempi, da vero provinciale, ero colpito da tutto. Dalla multirazzialità della città - a Prato non c'era neanche un uomo di colore ad esempio e quando passava un nero si giravano tutti per guardarlo - dalla grande metropoli piena di giapponesi intenti a fotografare i monumenti, una cosa che avevamo visto solo a Firenze che a sua volta era una città in cui andavamo poco perché i pratesi (oggi sostituiti dai cinesi non esistono quasi più) all'epoca erano un popolo a parte che con i fiorentini, più colti ed eruditi, per scelta incontestabile, non volevano avere niente a che fare.

A Roma era tutto mastodontico. Ero come in trincea, mi sentivo in prima linea e la prima linea del fronte a quel tempo era il residence in cui viveva Francesco. Impiegai mesi a capire che la poltrona su cui dormivo poteva diventare un divano letto.

NOTTI
Me lo spiegò pazientemente la portinaia sentendomi lamentarmi del mio feroce mal di schiena: «Come è possibile che le faccia sempre così male?» mi domandò una mattina e io le risposi di getto: «Signora, sono sei mesi che dormo su una poltrona, ci provi lei». Mi osservò con commiserazione: «Guardi che se la apre diventa un letto». Andai da Francesco: «Ma tu non te ne sei mai accorto?», «Io dormo già su un letto, che bisogno avevo di conoscere un'informazione del genere?».

Erano anni ribaldi di notti insonni e di amanti. Sia io che lui rifuggivamo da qualunque fidanzamento. Una sera in cui il rischio che il marito della moglie fedifraga che era stato tradito con Francesco si presentasse da lui con intenzioni bellicose era più alto del solito, Nuti si mise sul terrazzo del residence, come una piccola vedetta lombarda, a controllare che non accadesse nulla di irreparabile. Quella Roma di inizio anni '80, ancora attraversata dal vento benefico dell'Estate romana inventata da Renato Nicolini, era una città felice. Felice di incontrarsi nelle piazze, euforica di scambiarsi promesse, abbracci, versi di canzoni e carezze fino all'alba. Commossa di non essere ancora stata traviata dalle spiagge del litorale e dalle sue feste. Ognuno aveva il suo covo e noi non facevamo eccezione. Io, Troisi e Nuti ci ritrovavamo all'Hemingway, un localino di Piazza delle Coppelle in cui incontravamo Kounellis, Pizzi Cannella, Cucchi, Chia, i pittori della Transavanguardia e in cui il sacro e il profano si mischiavano allegramente. C'erano i comici, la gente che faceva il cinema più commerciale oggi ritenuto cult e quelli che al cinema - essendo il nostro un mestiere composto al 50 per cento di talento e al 50 di pubbliche relazioni - aspiravano affacciandosi sporadicamente. Ogni tanto, ma non nelle notti, perché lui aveva già figli e responsabilità, incontravamo Vittorio Cecchi Gori, il produttore di mezzo cinema italiano e forse più.

FARO
Vittorio fu un faro in tutto i sensi: ti indicava la strada sbagliata e quella giusta nello stesso tempo e oggi ripensando a quella fase della vita, mi viene da dire «ce ne fossero adesso di produttori così generosi, così capaci di spendere i soldi in maniera incosciente» perché ho sempre pensato che se un produttore è troppo cosciente è bene che cambi lavoro. Amo ancora Roma come agli inizi e ancora vado in giro per la città come uno straniero che ha voglia di sorprendersi. Non riesco ad abituarmi alla bellezza, all'imponenza e alla meraviglia. Ai ministeri, al Papa che si affaccia da quella finestrella da cui tanti prima di lui, nei secoli dei secoli, si sono affacciati. La osservo spesso quella finestra e non perché sia cattolico, ma perché penso al privilegio che ho vivendo qui: un privilegio che un cinese che vive in Manciuria non avrà mai. Passo anche per lui e per tutti quelli, miliardi di persone, che a Roma non verranno mai.

Oggi di Roma si parla invariabilmente male e a farlo sono soprattutto i romani. Io li capisco. Hanno visto cambiare la loro città sotto gli occhi e l'hanno vista occupare da noi forestieri. Roma ha subito il destino di tutte le grandi metropoli che, visitate e aggredite, hanno visto crescere i rischi del degrado della delinquenza e dell'abbandono delle periferie. Ci vivo da quasi 40 anni, ma se dovessi dire che Roma è cambiata moltissimo mentirei. Sono cambiate le amministrazioni, alcune le hanno voluto bene e altre l'hanno trascurata. Ma una città è viva solo quando riesce a riempire le sue piazze di cittadini, come ai tempi di Massenzio. Per questo mi piacciono i ragazzi del cinema America e mi piacerebbe che un ragazzo come Valerio Carocci, il suo animatore, diventasse assessore alla Cultura. È nato per quello. Non vuole denaro, non vuole diventare attore o regista. Vuole soltanto mettersi a disposizione ed è un caso raro in tempi di protagonismo e opportunismo diffuso. Roma avrebbe bisogno di lui e anche di mantenere la sua anima da grande paesone in cui in mezzo all'enormità del luogo, nei quartieri, si vive ancora come nei borghi di campagna. Ho avuto la possibilità di trasferirmi a New York, a Parigi e a Los Angeles, ma sono sempre rimasto qui. Roma è la mia città e lo sarà per sempre. Ci vivo bene. È un posto straordinario. E non lo dico io. Lo dice la storia.

(9/continua)