Emanuele Cozzi è uno dei massimi esperti internazionali di compatibilità tra donatore e ricevente, ma è pure uno dei ricercatori più autorevoli sulle nuove frontiere del settore, come xenotrapianto, organi ingegnerizzati e cuore artificiale.
Immunologo dei trapianti dell’Istituto superiore di Sanità, presso il Centro Nazionale Trapianti, lavora all’Università di Padova mentre all’Azienda Ospedale di Padova dirige un’unità operativa. Fa parte della delegazione italiana del Comitato dei Trapianti del consiglio d’Europa a Strasburgo del quale è stato anche presidente.
Professore, qual è lo scenario generale sul fronte trapianti?
«Purtroppo in Italia una famiglia su 3 non dà l’ok alla donazione e quindi perdiamo il 30% degli organi utilizzabili. Nel Veneto siamo più fortunati, perché solo in un caso su 5 arriva il divieto dai parenti».
Lo xenotrapianto potrebbe essere l’alternativa?
«In Italia nei prossimi 5 anni non si farà, se non in casi eccezionali e in pochissimi centri dove lavorano colleghi esperti. Però ci sono tre laboratori nordamericani, dove tre primati, il modello più vicino al nostro, vivono con un rene di maiale da più di un anno, e addirittura uno da un triennio, dati che attestano che si può passare all’uomo, essendo certa l’efficacia.
Quali sono le altre novità?
«Ad Harvard poche settimane fa un rene di maiale ingegnerizzato è stato impianto su un uomo che ora sta bene, come una donna che a metà novembre aveva subito il medesimo intervento a New York. D’altro canto il primo trapianto di cuore fatto da Barnard permise al malato di sopravvivere 18 giorni, per cui la “curva di apprendimento” va accettata. Io dico che lo xenotrapianto si deve fare, in pochi casi, non in età pediatrica, e in centri specializzati perché è una strada non priva di difficoltà, tra cui la biosicurezza, in quanto i maiali donatori nel genoma hanno dei retrovirus e non c’è la certezza assoluta che l’ingegnerizzazione sia risolutiva. Intanto negli Usa è arrivato il via libera per procedere su 50 pazienti ed è un peccato che l’Europa sia indietro».
In Italia qual è il quadro?
«In lista di attesa per un organo abbiamo 8 mila pazienti, di cui 1.200 nel Veneto. Ma se per quelli con problemi renali supplisce la dialisi, e attualmente sono 48 mila i soggetti che la effettuano dei quali 5 mila in attesa di trapianto, chi ha patologie cardiache, epatiche o polmonari muore se non arriva un cuore, un fegato, o un polmone».
Quali le alternative?
«L’organo meccanico, cioè il cuore artificiale, c’è e costa moltissimo, e come può dire meglio il collega Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia di Padova, si usa in pochi casi. Le uniche possibilità, restano lo xenotrapianto, l’organo umano, o quello ingegnerizzato in laboratorio. A quest’ultimo si sta lavorando e la tecnica consiste nel levare a un cuore di maiale tutte le cellule lasciando solo la struttura di supporto, e poi questa sorta di “impalcatura” costituita da fibre e proteine viene ripopolata con cellule del ricevente. Fra qualche anno sarà un’opzione, però la ricostruzione di un organo, che può essere pure il rene, è un percorso impegnativo».
Come mai è stato scelto il maiale?
«La scimmia sarebbe più compatibile, ma c’è un problema etico, oltre che sono insufficienti gli esemplari disponibili. Si è optato per i suini, di cui c’è una presenza massiccia anche per l’industria alimentare e nel nostro Paese abbiamo centri efficienti per l’ingegnerizzazione».
E poi la ricerca su cosa si sta focalizzando?
«Sulle cellule staminali. Se un soggetto che ha avuto un infarto ha il 10% della funzionalità del muscolo cardiaco, ipoteticamente con l’ingegnerizzazione si potrebbe “riparare” il danno ed è questo che si sta studiando».
Il rigetto è ancora uno spauracchio?
«Dopo il primo anno è la causa principale che determina la perdita del rene trapiantato ed è un problema immunologico. Perché un malato su 2 in Italia ha gli anticorpi contro un potenziale donatore».
Quali sono i fattori di rischio?
«Le gravidanze, perché le donne vengono a contatto con le proteine del partner, le trasfusioni e precedenti trapianti. Abbiamo pazienti che riconoscono addirittura il 99% dei donatori. In un caso su 2 entro 20 anni compare il rigetto e il malato torna in sala operatoria. Si sta cercando di migliorare la compatibilità tra donatore e ricevente, ma fondamentale è disporre di una grande “popolazione” di organi, perché così aumentano le possibilità di trovare quello ideale. È appena partito un progetto europeo per facilitare lo scambio. Il secondo versante su cui si stanno concentrando gli studi sono i farmaci immunosoppressori che sono migliorabili».
Infine, la perfusione.
«Consente di mantenere efficienti a lungo organi da trapiantare e quindi contiamo di poter utilizzare quelli messi a disposizione in un posto lontano. Con la precedenza che va sempre data a chi sta peggio».
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