Pregiudizi da evitare/ Due leader da mettere alla prova

di Alessandro Campi
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Martedì 22 Maggio 2018, 00:38
Sta dunque per nascere il governo politico voluto, voti e sondaggi alla mano, dalla maggioranza degli elettori italiani ma criticato e visto con preoccupazione dalla maggior parte dei commentatori e osservatori, a partire da quelli internazionali. La crisi delle democrazie contemporanee, a partire da quella italiana, probabilmente sta tutta in questo divorzio - di sensibilità prima che di interessi - tra la volontà popolare e una retorica pubblica o un’opinione ufficiale che sempre più spesso tende a negarla scambiando i propri desideri con la realtà. Un divorzio che è il vero alimento, sul piano psicologico ed elettorale, del tanto biasimato populismo. 
Il patto politico tra Salvini e Di Maio, al quale domani il Capo dello Stato darà una traduzione istituzionale con l’incarico conferito (salvo sorpresa) al giurista Giuseppe Conte, viene denunciato in queste ore come una spartizione del potere. Ma quale accordo di governo non lo è? Si ironizza anche sul tasso di dilettantismo e sull’avventatezza di coloro che lo hanno siglato.

Ma forse bisognerebbe riconoscere il lucido realismo con cui i due giovani leader, nell’arco di un paio di settimane e partendo da posizioni politiche divergenti, hanno saputo trovare un punto di mediazione e d’equilibrio. La loro pragmatica determinazione è stata premiata: in politica sapere quel che si vuole e dichiararlo è, fino a prova contraria, un’apprezzabile virtù. Ci si allarma (anche giustamente) per certe forzature alle vigenti procedure costituzionali, ma bisognerebbe anche chiedersi se forzature analoghe e non meno gravi, non sempre giustificate da una logica d’emergenza politica, non si siano avute anche nel recente passato. 
Insomma, a questo governo nascente un’occasione bisognerebbe darla, invece del fuoco pregiudiziale, peraltro inutile e controproducente per chi lo alimenta, cui stiamo assistendo. Alternative politiche, con i numeri di cui si dispone in Parlamento, non ne esistono, a meno di non voler considerare tale quella che avrebbe portato al governo, insieme ai grillini, il Pd renziano, vale a dire la forza politica che lo scorso 4 marzo ha subito la sconfitta più dura e che saggiamente, contro i cattivi consigli venuti da ogni dove, ha invece scelto la via dell’opposizione. Ogni alternativa di governo tecnica o istituzionale, per quanto all’apparenza più rassicurante, avrebbe solo esasperato gli elettori, stanchi di votare a vuoto, senza peraltro offrire una reale garanzia d’efficacia e autorevolezza sul piano dell’azione, interna e internazionale.

Se i populisti fanno davvero paura il modo migliore per neutralizzarli, visto anche il consenso crescente di cui godono, è metterli alla prova, costringendoli a trasformare in decisioni di governo le loro ricette propagandistiche. Laddove la demonizzazione, specie se accompagnata da un sottile disprezzo nei confronti del voto popolare e delle cattive ragioni che lo motivano, è una strategia comunicativa che, ovunque in Europa, ha solo contribuito a renderli una forza sempre più stabile e radicata nel panorama dei partiti.
Quest’ultimo d’altronde è un punto dirimente, col quale si fatica a fare i conti. Le grandi famiglie ideologiche che hanno fatto la storia delle democrazie europee dopo la Seconda guerra mondiale – liberali, cristiano-popolari, socialiste – sono ovunque in affanno, messe in difficoltà, prima che dall’onda del risentimento anti-politico, dalla loro difficoltà ad affrontare, sulla base di nuove ricette e programmi, le trasformazioni radicali che hanno investito le società contemporanee. Hanno un grande passato, ma forse faticano a comprendere il futuro. Stiamo probabilmente andando verso una ristrutturazione dei tradizionali sistemi di partito e dei criteri di divisione (destra/sinistra, conservazione/progresso) che li caratterizzavano. Qualcuno ha suggerito una nuova linea di demarcazione: sovranisti/europeisti. Ma forse è la stessa logica bipolare ad essere entrata in crisi. Oggi vincono o appaiono più credibili le sintesi ideologiche innovative: vale per Macron, che tutti lodano, perché non dovrebbe valere per i dioscuri nostrani? 

Quello giallo-verde (se un simile governo vedrà la luce, vedremo anche con quale composizione interna) è certo un esperimento, che per definizione può fallire e anche produrre gravi danni. Ma lavorare per screditarlo o farlo fallire prima possibile, è una pessima strategia. Più utile, come è nelle possibilità del Capo dello Stato, indirizzarlo nella scelta di alcuni dicasteri-chiave (Difesa, Esteri, Economia…) per fare in modo che nasca al meglio delle sue possibilità. Dopo di che il giudizio si dovrà dare sulle cose fatte concretamente. Su quello che si sceglierà di realizzare (e in che forma) dei tanti punti messi nero su bianco nel fatidico contratto: certo un libro dei sogni, pieno di cose contraddittorie e di obiettivi irraggiungibili, ma di quel documento andrebbe colto il segno politico, e il segnale di novità sul piano del metodo, invece di criticarne la lettera con la pedanteria dei ragionieri. Certo, le compatibilità finanziarie sono una cosa seria e dirimente, ma andranno valutate sulle proposte concrete, non sulle intenzioni. 

Di sicuro suonano aprioristici certi interdetti che vengono dall’Europa, o che si nascondono dietro di essa. Se si vede un rischio politico per l’Italia, bisognerebbe anche vedere il rischio politico per l’Europa che nasce dall’ostinazione con cui le sue classi dirigenti negano il malessere collettivo che hanno contribuito a far nascere. L’Europa non è in crisi per colpa dei populisti, ma questi ultimi esistono e prosperano a causa di un europeismo che da ideale cooperativo finalizzato al benessere collettivo si è trasformato in un’ideologia del dirigismo politico e del rigore finanziario che nei cittadini non producono più alcun entusiasmo, semmai apprensione e ansia. Ora che la rivolta anti-establishment ha toccato un Paese grande e importante come l’Italia, più che le solite parole d’allarme, da Bruxelles e dintorni ci si aspetterebbe un ripensamento autocritico su ciò che in Europa non funziona.
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