NEW YORK - Illia Matviienko festeggia due compleanni. Il primo è quello registrato sui documenti: il giorno in cui è venuto al mondo a Mariupol. Il secondo è quello in cui nonna Olena lo ha visto in un video russo di 26 secondi e ha capito che quel bambino in pigiama, seduto su un letto d’ospedale, non era morto sotto le bombe. Era vivo. E lei l’avrebbe riportato a casa.
Nel marzo 2022, durante l’assedio russo a Mariupol, Illia ha perso tutto.
L’INFERNO
Il bambino è stato raccolto dai soldati russi e trasferito a Donetsk. Lì, tra flebo, operazioni senza anestesia e dolore, è iniziato un inferno ancora peggiore della vita sotto le bombe: invece di restituirlo alla famiglia, come imporrebbe il diritto internazionale, le autorità preparavano per lui una nuova identità russa, un certificato di nascita fasullo, un futuro sotto un altro nome. Ma Illia non si era dimenticato chi era: «Sono ucraino» ripeteva all’infermiera che voleva adottarlo e portarlo a Mosca.
A 800 chilometri di distanza, nonna Olena stava perdendo la speranza. La svolta è arrivata da un video di propaganda russo in cui ha riconosciuto il nipote, ferito ma vivo. È cominciata così la sua missione di salvataggio, un'odissea attraverso quattro confini e due guerre: quella con i missili e quella per i cuori e la memoria dei bambini.
LE PROVE
Con l'aiuto di volontari, Olena raccoglie prove, documenti, coraggio. Con un altro nonno ucraino – lui in cerca della nipotina Kira – vola in Polonia, poi a Mosca su un jet privato, infine venti ore in treno fino a Donetsk, dove si presenta in ospedale: «È mio nipote. Non osate darlo in adozione». E Illia, che non sperava più, la guarda incredulo: «Pensavo che non saresti mai più venuta». Tornato in Ucraina, Illia non riesce a dormire nel buio e ogni rumore lo fa sobbalzare di paura. Ma a Uzhhorod, lentamente, ritrova sé stesso. Va a scuola. La maestra lo presenta con rispetto: «Illia ha visto l'orrore. Ricordiamo ogni giorno chi ha sacrificato la vita per la nostra libertà».
Racconta la sua storia ai parlamentari tedeschi, poi all’Onu, una delle prime voci del programma “Bring Kids Back”. Oggi la sua vicenda è tonata a galla, simbolo di un dramma più grande. Secondo il Conflict Observatory di Yale, almeno 19.500 bambini sono stati deportati dalla Russia. Forse 50.000, forse 100.000. Di questi, solo 1.300 sono stati riportati a casa. I numeri sono incerti, ma il trauma è certo. I russi cambiano nomi, date di nascita, città d'origine. I legami familiari vengono spezzati, le tracce e le memorie cancellate. Il mese scorso, Zelensky ha chiesto al Papa di intervenire, e Leone XIV ha promesso l’impegno della Chiesa perché «i bambini possano tornare alle loro famiglie».
La questione dei bambini deportati è oggi fermamente al centro di ogni ipotesi di pace. A Istanbul, tre le condizioni non negoziabili che Kiev ha presentato: cessate il fuoco, garanzie di sicurezza, ritorno di tutti i bambini deportati. La Russia nega i rapimenti, sostiene di aver voluto «salvare i bambini», ma ammette: «al massimo sono state poche centinaia». Zelensky ha però commentato: «Ciò che conta è che abbiano ammesso il fatto».
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